Mario Draghi, ez-ezaguna?

2 giugno 1992, il giorno in cui l’Italia perse la sua sovranità sul panfilo “Britannia”

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02 Giugno 2020

di Thomas Fazi 

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Il 2 giugno è un giorno strano. Oggi, infatti, ricorre sia l’anniversario della nascita della Repubblica, nel 1946, che quello di uno dei peggiori attentati alla vita della Repubblica, avvenuto il 2 giugno del 1992.

Quel giorno i massimi vertici dell’economia italiana – il presidente della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi, il ministro del bilancio Beniamino Andreatta (i due che dieci anni prima avevano siglato il tragico “divorzio” tra Bankitalia e Tesoro), il direttore generale del Tesoro Mario Draghi, i vertici dell’Eni, dell’IRI, delle grandi banche pubbliche e delle varie aziende e partecipate di Stato – si incontrarono al largo di Civitavecchia sul panfilo della regina Elisabetta, il “Britannia”, con la crème de la crème della grande finanza internazionale per pianificare a tavolino il saccheggio dell’economia italiana, in primis attraverso la privatizzazione e la liquidazione, a prezzi di saldo, degli straordinari patrimoni industriali e bancari dell’Italia, che avevano fatto la fortuna del nostro paese nel dopoguerra.

All’inizio degli anni Novanta, infatti, la quasi totalità del settore bancario e oltre un terzo delle imprese di maggiore dimensione in Italia erano ancora in mano pubblica: un’eresia intollerabile nel momento in cui si andava imponendo in tutto l’Occidente il dogma del liberismo e del mercatismo selvaggio. L’Italia aveva bisogno di una “terapia shock”, alla sudamericana, per essere ricondotta sulla retta via.

Per nostra sfortuna (ma probabilmente non è un caso) questo momento storico coincise con il “golpe bianco” di Tangentopoli, che poco prima aveva spazzato via praticamente tutti i partiti della prima Repubblica, spianando così la strada alla peggiore classe politica che questo paese abbia mai avuto, ovverosia a quegli esponenti dell’establishment italiano – Ciampi, Draghi, Amato, Andreatta, solo per citarne alcuni, che a loro volta erano espressione di uno “Stato nello Stato”, comprendente anche grandi aziende economiche ed editoriali, figure tecniche, movimenti della società civile, intellettuali e pezzi della magistratura – che da tempo sognavano di liquidare una volta per tutte il modello Stato-centrico italiano per mezzo del vincolo europeo, anche al costo di ridurre l’Italia a colonia dei centri di comando europei.

Pochi mesi prima dell’incontro del “Britannia”, infatti, era stato siglato il famigerato trattato di Maastricht, che impegnava l’Italia a una drastica politica di austerità fiscale e di abbattimento del debito pubblico. Ed è proprio facendo appello alle pressioni europee in tal senso che i privatizzatori nostrani giustificarono lo smantellamento dell’apparato industriale e di pianificazione pubblico italiano.

Come avrebbe detto poi Romano Prodi, artefice dello smantellamento dell’IRI in qualità di presidente dello stesso nel 1993-4: «Erano obblighi europei! Mi [era] stato dato il compito da Ciampi che privatizzare era un compito obbligatorio per tutti i nostri riferimenti europei».

In questa frase di Prodi è contenuto tutto il senso del vincolo esterno europeo, che ha agito (e continua ad agire) sia come pressione reale per riformare l’economia in senso neoliberale, sia come giustificazione per le élite nazionali, che a loro volta auspicavano quelle stesse riforme ma erano consapevoli che non sarebbero mai riusciti ad ottenerle «per le vie ordinarie del governo e del Parlamento», come disse Guido Carli, ministro del Tesoro al tempo della firma del trattato di Maastricht, cioè senza una pressione esterna che gli permettesse di aggirare i normali canali democratici.

È così che in pochi anni venne svenduto un patrimonio inestimabile accumulato in quasi mezzo secolo di politiche pubbliche, privando l’Italia di una delle principali basi materiali della sua Costituzione: ovverosia ciò che fino a quel momento aveva permesso allo Stato di perseguire (con tutti i limiti del caso) politiche di sviluppo industriale, di orientamento dei consumi, di innovazione strategica, di coesione territoriale, di salvaguardia dell’occupazione. Non a caso è proprio in quegli anni che inizia il lungo declino dell’Italia, a cui verrà dato il colpo di grazia con l’ingresso nell’euro.

A distanza di quasi trent’anni da quel tragico 2 giugno del 1992, sarebbe il caso di chiudere una volta per tutte questo triste capitolo della storia italiana, restituendo al popolo ciò che è suo: dai monopoli naturali come la rete autostradale e le reti energetiche – che negli anni sono stati smembrati e consegnati nelle mani di spregiudicati “prenditori”, che ne hanno ricavato rendite e profitti a scapito della qualità e dei costi dei servizi, e dunque a scapito di tutta la collettività – alle banche.

Fino ad arrivare al bene pubblico per eccellenza: la moneta.

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Mario Draghi senza vergogna: da architetto dell’austerità a “salvatore” dei giovani

(https://www.ilparagone.it/interventi/mario-draghi-senza-vergogna-da-architetto-dellausterita-a-salvatore-dei-giovani/)

19 Agosto 2020,

di Thomas Fazi.

Ci vuole una bella faccia tosta a chiamarsi Mario Draghi e a fare – come ha fatto l’ex presidente della BCE al consueto Meeting per l’amicizia fra i popoli di Comunione e Liberazione, in quello che molti hanno interpretato come l’inizio della sua personale campagna elettorale – un discorso tutto incentrato sui giovani. A detta di Draghi, negli ultimi anni «una forma di egoismo collettivo ha indotto i governi a [trascurare i giovani e a] distrarre capacità umane e altre risorse in favore di obiettivi con più certo e immediato ritorno politico». Ma adesso, dice Draghi, è arrivato finalmente il momento di «essere vicini ai giovani», investendo su di loro e sul loro futuro, perché «privare un giovane del futuro è una delle forme più gravi di diseguaglianza».

Parole indubbiamente condivisibili, ma che risulterebbero più credibili se a pronunciarle non fosse colui che per otto anni ha presieduto la più importante carica istituzionale dell’Unione europea, quella di presidente della Banca centrale europea (BCE), e che in quella veste ha pervicacemente sostenuto le politiche di austerità fiscale che hanno condannato milioni di giovani europei alla disoccupazione, alla precarietà e all’emigrazione forzata, distruggendo le prospettive di un’intera generazione.

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Ricordiamo che prima dello scoppio della pandemia – in quelli che possiamo considerare tempi “normali” – circa il 15 per cento dei giovani nell’eurozona, in media, erano disoccupati, con picchi del 33 per cento in Grecia, del 32 per cento in Spagna e del 27 per cento in Italia. Numeri da capogiro, che però nascondono la tragedia umana che si cela dietro di essi: milioni di giovani (e ormai non più tanto giovani, a distanza di un decennio) a cui è stata negata la possibilità di costruirsi un’esistenza dignitosa, una famiglia, un futuro, costretti ad accontentarsi di sopravvivere, di mese in mese, di anno in anno, tra lavoretti precari e sottopagati, spesso lontano dal proprio paese e dai proprio affetti.

E tutto questo non è il risultato di ciò che Draghi chiama «una forma di egoismo collettivo», qualunque cosa voglia dire, ma di un regime politico-economico ben preciso fondato sull’austerità, sulla disoccupazione e sullo sfruttamento – soprattutto dei giovani –, che trova nell’architettura dell’euro la sua architrave. E che nel corso dell’ultimo decennio ha trovato in Mario Draghi uno dei suoi principali sponsor.

I giovani, infatti, non dimenticano – o così ci auguriamo – che fu proprio Draghi, nell’agosto del 2011, poco prima di assumere la carica alla BCE, e nel pieno della furia speculativa nei confronti dei titoli italiani, a inviare al governo italiano, insieme al suo Trichet, quella famosa “letterina”, che poi sarebbe entrata nella storia, in cui intimavano al governo «una profonda revisione della pubblica amministrazione», compresa «la piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali», «privatizzazioni su larga scala», «la riduzione del costo dei dipendenti pubblici, se necessario attraverso la riduzione dei salari», «la riforma del sistema di contrattazione collettiva nazionale» e persino «riforme costituzionali che inaspriscano le regole fiscali».

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I giovani non dimenticano che fu sempre Draghi a spianare la strada al governo “tecnico” di Mario Monti, e alla macelleria sociale che ne è seguita, con la sua decisione di cessare gli acquisti di titoli di Stato italiani (come ammesso dallo stesso Monti).

I giovani non dimenticano che fu sempre Draghi, appena un mese dopo il suo colpo di Stato silenzioso in Italia, a lanciare l’idea di un “patto fiscale” (“fiscal compact“): «una revisione fondamentale delle regole a cui le politiche di bilancio nazionali dovrebbero essere soggette in modo da risultare credibili». Ciò comportò, nel marzo del 2012, la firma da parte di tutti gli Stati membri dell’UE (con le uniche eccezioni di Regno Unito e Repubblica Ceca) di una versione ancora più rigorosa del Patto di stabilità e crescita istituito dal trattato di Maastricht: il cosiddetto Fiscal Compact. Esatto, quest’ultimo è un’invenzione di Draghi. Cosa la firma di questa trattato significasse per l’Europa lo spiegò lo stesso Draghi in un’intervista al Wall Street Journal pochi mesi dopo: «Non c’è alternativa al consolidamento fiscale, il modello sociale europeo appartiene già al passato».

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I giovani, infine, non dimenticano che fu sempre Draghi a coniare il concetto di “pilota automatico” in riferimento alle politiche economiche dell’eurozona. In seguito alle elezioni italiane del 2013, in cui il Movimento 5 Stelle emerse come il primo partito del paese, Draghi rassicurò tutti circa i timori che questo potesse portare l’Italia fuori dai binari dell’austerità: «Gran parte dell’adeguamento fiscale che l’Italia ha intrapreso continuerà con il pilota automatico». E infatti così è stato. Il messaggio di Draghi era chiaro: grazie al nuovo regime di governance economica che egli stesso aveva contribuito a costruire, i risultati delle elezioni non avrebbero contato più nulla. Come avrebbe detto qualche anno più tardi il ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schäuble: «Le elezioni non cambiano nulla. Ci sono delle regole».

È precisamente questo processo di spoliticizzazione delle politiche economiche che ha permesso a Draghi di pronunciare il suo famoso discorso che “ha salvato l’euro” nell’estate del 2012. In quell’occasione, Draghi annunciò l’istituzione del programma OMT (Outright Monetary Transactions), con il quale la BCE si impegnava, se necessario, ad effettuare acquisti illimitati di titoli di Stato sui mercati obbligazionari secondari «per preservare l’euro». Le sue parole fecero immediatamente scendere gli interessi sui titoli di Stato

europei.

Tuttavia, se da un lato questo ha aiutato i paesi in crisi (come l’Italia) ad evitare l’insolvenza, ha fatto ben poco per sostenerli in termini di rilancio delle loro economie: questo avrebbe richiesto politiche di stimolo fiscale (cioè deficit più elevati), che era esattamente ciò che il nuovo quadro di governance fiscale inaugurato da Draghi proibiva. L’accesso a un programma OMT, infatti, come abbiamo scoperto in questi mesi, comporta l’adesione da parte del paese in questione a un rigido programma di austerità fiscale e alle famigerate “condizionalità” della troika (liberalizzazione del mercato del lavoro, privatizzazione degli asset statali, compressione dei salari ecc.), all’interno della cornice del Meccanismo europeo di stabilità (MES).

In breve, le varie innovazioni istituzionali introdotte da Mario Draghi nel corso degli anni, che gli sono valse così tanti elogi, non hanno trasformato la BCE in un prestatore di ultima istanza, su cui i governi nazionali possano fare affidamento sempre e comunque, ma l’hanno resa piuttosto uno “spacciatore di ultima istanza”, con il potere di sfruttare le difficoltà economiche dei paesi per ricattarli e costringerli a implementare politiche di matrice neoliberista. Questo è diventato evidente nell’estate del 2015, quando, nel bel mezzo del negoziato tra le autorità greche e la troika, la BCE ha deliberatamente destabilizzato l’economia greca, interrompendo il supporto di liquidità alle banche, per costringere il governo di SYRIZA ad accettare le dure misure di austerità contenute nel nuovo memorandum, un fatto pressoché senza precedenti nella storia.

Tutti questi episodi dimostrano che è soprattutto merito di Draghi se oggi possiamo dire che l’eurozona è l’unica area economica al mondo in cui non è la banca centrale ad essere dipendente dai governi, ma sono i governi ad essere dipendenti dalla banca centrale. Come detto, a farne le spese di questa architettura infernale, di cui Draghi è uno dei principali artefici, sono stati – e continuano ad essere – soprattutto i giovani. Quegli stessi giovani che oggi Draghi vorrebbe “salvare”. Purtroppo non possiamo cambiare il passato, ma almeno possiamo cercare di evitare che Draghi costruisca il suo futuro politico su quegli stessi giovani a cui ha distrutto il futuro.

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Derivati di Stato: quando Mario Draghi svendette l’Italia alle banche d’affari

https://www.lafionda.org/2020/08/31/derivati-di-stato-quando-mario-draghi-svendette-litalia-alle-banche-daffari/

31 Ago , 2020

Thomas Fazi

Mario Draghi, nel suo recente e molto discusso intervento al Meeting di Rimini (che abbiamo già trattato qui1), ha ribaltato una delle architravi della narrazione euro-austeritaria dell’ultima decennio (avallata dallo stesso Draghi), quella dell’imperativo assoluto della riduzione del debito pubblico, costi quel che costi in termini economici e sociali (per maggiori informazioni citofonare alla Grecia), sostenendo che l’attuale fase storica «sarà inevitabilmente accompagnata da stock di debito destinati a rimanere elevati a lungo». Insomma, contrordine compagni: il debito pubblico non è più il male assoluto, ma anzi l’aumento degli stock di debito è una necessità impellente per evitare «una distruzione permanente della capacità produttiva e quindi fiscale, [che] sarebbe ancora più dannosa per l’economia», come ha dichiarato qualche mese addietro in un’altra occasione.

Allo stesso tempo, però, Draghi si è affrettato a specificare che bisogna distinguere tra “debito buono” e “debito cattivo”, laddove il primo è quello “produttivo”, quello cioè, se decodifichiamo il gergo draghiano, che piace ai mercati finanziari, ovverosia che genera ritorni economici al capitale privato nel breve periodo, mentre il secondo è quello cosiddetto “improduttivo”, ovverosia quello che, nella migliore delle ipotesi, pur generando rendimenti sociali di lungo periodo potenzialmente molto benefici per la società nel complesso – laddove venisse utilizzato, poniamo, per aumentare le assunzioni e le retribuzioni di medici e insegnanti –, non offre rendimenti economici nel breve termine. Insomma, non siamo di fronte a nessuna conversione sulla via di Damasco, come hanno sostenuto alcuni; più banalmente, cambiano gattopardescamente le parole (“debito” al posto di “austerità”) affinché non cambi nulla: la visione del mondo e della società che sottende le parole di Draghi, e gli interessi che quest’ultimo rappresenta, sono gli stessi di sempre.

Ma il punto che ci preme sottolineare in questa sede è un altro. Fa specie che proprio Mario Draghi si permetta di moraleggiare di debito buono e debito cattivo, considerando che proprio Draghi, negli anni Novanta, quando era direttore generale del Tesoro italiano (carica che ha ricoperto dal 1991 al 2001, per poi andare alla Goldman Sachs), ha sovrinteso all’emissione, da parte dello Stato italiano, di una montagna di titoli di debito tra i più “tossici” e speculativi al mondo, di cui ancora oggi paghiamo – letteralmente – le conseguenze. Stiamo parlando, ovviamente, dei famigerati derivati di Stato.

Di cosa si tratta? I derivati sono degli strumenti finanziari che derivano il loro valore dall’andamento del valore di un’attività sottostante, che può avere natura finanziaria (come ad esempio i titoli azionari, i tassi di interesse e di cambio, gli indici ecc.) o reale (come ad esempio il caffè, il cacao, l’oro, il petrolio ecc.). Ora, se è vero che in alcuni casi i derivati possono servire a ridurre legittimamente i rischi di portafoglio, permettendo per esempio a un investitore di negoziare con un venditore il prezzo di un bene che intende acquistare in una data futura e dunque di tutelarsi rispetto a un aumento del costo del bene in questione, è altresì vero che la maggior parte dei contratti derivati ha una natura puramente speculativa, consiste cioè nell’assunzione di un rischio con l’obiettivo di conseguire un profitto.

Una scommessa, insomma, non diversa da quelle praticate quotidianamente nell’ambiente del gioco d’azzardo. Con la differenza, però, che i derivati finanziari muovono cifre incomparabilmente più grandi (si stima che il valore nozionale dei derivati in circolazione a livello mondiale sia pari a più di trenta volte il PIL mondiale) e, quando le cose vanno male, possono avere ripercussioni molto pesanti anche sull’economia reale; non a caso i derivati hanno giocato un ruolo fondamentale nella crisi finanziaria del 2007-92, tanto che molti al tempo proposero (invano) di metterli fuorilegge una volta per tutte.

Veniamo ora ai contratti derivati sottoscritti dallo Stato italiano ai tempi di Draghi. Siamo alla metà degli anni Novanta e in quel periodo le élite del nostro paese – Carlo Azeglio Ciampi, Giuliano Amato, Romano Prodi e ovviamente lo stesso Draghi, solo per citarne alcuni – avevano un unico obiettivo: aggiustare (letteralmente) i conti pubblici per ottemperare ai criteri di Maastricht e permettere così all’Italia di aderire all’euro. Ed è qui che entrano in gioco i derivati. La maggior parte dei derivati sottoscritti in quegli anni, per un valore di circa 160 miliardi, consisteva in cosiddetti interest rate swap: in sostanza lo Stato riceve da una banca d’affari un flusso di cassa a tasso variabile sufficiente a ripagare un certo numero di titoli in scadenza e in cambio si impegna a pagare alla stessa banca un tasso fisso a lunga scadenza.

Questo ha permesso all’Italia di ridurre artificialmente il proprio deficit di qualche decimale, con il placet della Commissione europea e di Eurostat, l’agenzia statistica europea, le cui regole, successivamente modificate in parte, permettevano al tempo di contabilizzare come un’entrata quello che di fatto è un debito. Nonché, ovviamente, una scommessa: in sostanza, se i tassi fossero cresciuti – come effettivamente è stato fino ai primi anni Duemila – lo Stato italiano ci avrebbe guadagnato; se invece fossero scesi, ci avrebbero perso, a tutto vantaggio delle banche d’affari. Se, dunque, in una prima fase, l’Italia ha effettivamente realizzato dei guadagni sui derivati creditizi, a partire dal 2005, con la riduzione dei tassi, i derivati hanno cominciato a generare perdite sempre più ingenti per lo Stato: qualche anno fa (non ho trovato stime più recenti) è stato lo stesso governo, dopo aver apposto per anni una sorta di informale segreto di Stato sulle perdite relative ai derivati, ad ammettere, in seguito a un’interrogazione parlamentare, che il valore di mercato dei derivati in questione era negativo per circa 35 miliardi di euro (e positivo per un valore equivalente per le banche). Una danno monumentale per l’erario, soprattutto in tempo di austerità (ma non per tutti, evidentemente).

Ma la vicenda non finisce qui. Oltre agli strumenti derivati più tradizionali sopracitati, tra la metà degli anni Novanta e la metà degli anni Duemila l’Italia ha anche sottoscritto operazioni più speculative, note come swaption, inserite nell’operatività del Tesoro proprio quando direttore generale era Mario Draghi. Una swaption consiste nella vendita da parte dello Stato, in cambio di un premio, di un’opzione che attribuisce alla banca acquirente la facoltà di decidere se sottoscrivere o meno, in una data futura, un interest rate swap a un tasso fisso prestabilito. Va da sé che si tratta di un’operazione ancora più rischiosa – o, appunto, speculativa – di un normale swap, poiché comporta il rischio per la parte venditrice, in questo caso lo Stato, di ritrovarsi a firmare un contratto swap che presenta condizioni sfavorevoli già al momento della stipula. Questo è esattamente quello che è successo nel 2005, quando la banca d’affari statunitense Morgan Stanley ha deciso di attivare una swaption sottoscritta l’anno precedente, in virtù della quale lo Stato aveva incassato un premio di 47 milioni di euro. Peccato che, secondo la Corte dei Conti, lo swap in questione aveva già in partenza un valore di mercato negativo di 600 milioni di euro; sarebbe a dire che da lì al 2035 quello swap sarebbe costato al Tesoro 600 milioni di interessi netti.

Ma non finisce neanche qui. Un accordo quadro siglato nel 1994 dal Tesoro sempre con la Morgan Stanley, che doveva regolare tutti i successivi derivati sottoscritti con la banca, includeva una clausola secondo la quale la banca americana avrebbe potuto esigere unilateralmente (a differenza dei contratti con le altre banche, che prevedevano clausole bilaterali) l’immediata chiusura di tutti i derivati, nel momento in cui il valore della propria esposizione nei confronti dello Stato avesse superato una certa soglia, variabile a seconda del rating dello Stato italiano. Nonostante quella soglia sia stata superata nel 2003, però, la Morgan Stanley ha continuato a firmare o a rinegoziare diversi contratti con il Tesoro, vedasi la swaption del 2004, aumentando in misura sostanziale l’esposizione negativa del Tesoro, senza che la banca attivasse la clausola per estinguere i derivati e farsi pagare dal governo italiano il valore di mercato degli stessi, a quel punto già negativo, così come prevedeva l’accordo del 1994. «Non avevamo conoscenza di tale clausola», avrebbero dichiarato in seguito i dirigenti del Tesoro.

La Morgan Stanley ha scelto di esercitare quella clausola solo nel 2011, all’indomani dell’attacco finanziario all’Italia che spianò la strada al governo “tecnico” di Mario Monti – attacco finanziario ordito, curiosamente, sempre dallo stesso Draghi, che «decise di cessare gli acquisti di titoli di Stato italiani da parte della BCE» per far schizzare in alto lo spread e costringere Berlusconi alle dimissioni, come ammesso persino da Mario Monti qualche tempo fa. È a quel punto che la banca d’affari – adducendo come causale il declassamento del rating italiano, pochi mesi prima, da parte dell’agenzia di rating statunitense S&P, tra i cui azionisti figura la stessa Morgan Stanley – decide di chiudere unilateralmente in maniera anticipata tutti i suoi contratti in essere con lo Stato, incassando sull’unghia dal governo Monti, che nel frattempo annunciava misure lacrime e sangue per i cittadini italiani, la colossale cifra di 2,5 miliardi di euro (di cui un miliardo relativo solo all’accordo del 2004, per il quale lo Stato aveva incassato, lo ricordiamo, ben 47 milioni di euro: lasciamo al lettore il calcolo del bilancio finale). Piccola curiosità: fino a qualche anno prima il figlio di Monti, Giovanni, aveva lavorato proprio alla Morgan Stanley.

Una vicenda talmente clamorosa da spingere la procura della Corte dei Conti, nel 2013, a citare in giudizio la Morgan Stanley per danno erariale. Secondo l’accusa, la banca si sarebbe resa responsabile del 70 per cento di un danno complessivo da 3,9 miliardi, commettendo, con la sua decisione di chiudere tutti i suoi contratti, nel 2011, «palesi violazioni dei principi di correttezza e buona fede nell’esecuzione contrattuale». Questo perché la banca ricopriva un ruolo particolare, quello di “specialista”: si tratta delle banche che assistono il governo nelle aste dei titoli di Stato e che in quel ruolo devono contribuire alla gestione del debito pubblico anche attraverso un’attività di consulenza e ricerca.

Ancora più sorprendente, però, era la richiesta di risarcimento della Corte del restante 30 per cento dei danni, pari a più di un miliardo di euro, a carico dei dirigenti del Tesoro che per anni non si accorsero della succitata clausola: Maria Cannata, al Tesoro dal 1992 e dal 2000 a capo della direzione del debito pubblico, carica che ha ricoperto fino al 2017; il suo predecessore Vincenzo La Via, nominato alla direzione generale del Tesoro nel 2012 (fino al 2018); e gli ex direttori generali del Tesoro Domenico Siniscalco (2001-2004), poi passato, indovinate un po’, alla stessa Morgan Stanley, e Vittorio Grilli (2005-2011), diventato poi viceministro e successivamente ministro dell’Economia del governo Monti tra il 2011 e il 2013 (cioè nel periodo in cui fu liquidata la somma alla Morgan Stanley), per poi passare infine alla JPMorgan, altra banca d’affari statunitense. L’accusa era che alcuni contratti di derivati evidenziavano chiari «profili speculativi» che non li rendevano idonei alla finalità di ristrutturazione del debito, ossia l’unica finalità ammessa dalla normativa vigente. Né sarebbero state attivate adeguate garanzie. Curiosamente Mario Draghi non figurava tra gli imputati, nonostante ci fosse lui a capo della direzione generale del Tesoro quando fu siglato l’accordo quadro con la Morgan Stanley e quando le swaption furono inserite nell’operatività del Tesoro.

Quel processo si è intrecciato, seppur indirettamente, a un’altra indagine condotta dalla procura di Trani nei confronti delle agenzie di rating S&P e Fitch, accusate di aver deliberatamente generato il panico sui mercati con i loro declassamenti del 2011, alimentando così la speculazione ai danni del nostro paese, nonché di aver offerto il casus belli alla Morgan Stanley – azionista, lo ricordiamo, della stessa S&P – per recedere dal suo contratto con il Tesoro e chiedere la liquidazione dell’attivo in suo favore per circa 2,5 miliardi. Ciò su cui volevano far luce i magistrati era perché il Ministero dell’Economia avesse liquidato la somma «senza battere ciglio» e non avesse ritenuto di chiedere un parere giuridico sulla possibilità di difendersi da quella clausola o quantomeno di prendere tempo in attesa di capire la legittimità e trasparenza di quei declassamenti, considerando i legami azionari tra S&P e Morgan Stanley ma soprattutto il fatto che al tempo il procedimento penale della procura di Trani nei confronto delle agenzie di rating era già in corso. Nessuno dei diretti interessati – né Cannata, né Monti, né altri – si è però sentito in dovere di aiutare a fare luce sulla vicenda, schermandosi dietro alla ragion di Stato, di tutte le cose: mettersi di traverso o anche sospendere il versamento per chiarire la situazione «sarebbe stato reputazionalmente deleterio», dichiarò Cannata, che aggiunse di non essere a conoscenza della partecipazione di Morgan Stanley nella S&P.

Purtroppo entrambi i processi si sono conclusi con un nulla di fatto: nel 2017 i giudici di Trani hanno assolto S&P e Fitch, mentre nel 2019 la Corte dei Conti ha deliberato l’impossibilità di procedere contro gli ex vertici del Tesoro per «difetto di giurisdizione», riconoscendo cioè che i giudici non possono sindacare le scelte discrezionali dei funzionari se queste sono prese nel rispetto della legge. Eppure sono ancora tanti, troppi i punti oscuri in questa assurda vicenda, che riassume molti dei mali dei nostri tempi: la finanziarizzazione del debito pubblico, che da (fondamentale) strumento di politica economica è diventato, soprattutto in virtù della rinuncia dell’Italia alla sua sovranità monetaria, un veicolo per trasferire risorse dal basso verso l’alto e in particolare verso la grande finanza internazionale; il fenomeno delle “porti girevoli” tra politica e finanza (praticamente tutti i protagonisti della vicenda sono poi andati a lavorare per qualche grande banca d’affari o venivano da lì, come nel caso di Monti); l’infimo livello delle nostre classi dirigenti, che ormai da tempo rispondono a logiche che nulla hanno a che vedere con l’interesse nazionale; la spregiudicatezza delle oligarchie internazionali e dei loro lacchè locali, che non si fanno scrupolo di commettere i loro saccheggi alla luce del sole; i limiti del diritto, data la capacità del capitale oligarchico di piegare la legge ai propri interessi.

E al centro di questa trama c’è una persona in particolare, che non a caso ha fatto la carriera più stellare di tutti: l’ex presidente della BCE Mario Draghi. Che oggi, forte probabilmente del consenso pressoché unanime di cui gode nel nostro paese maledettamente smemorato, si permette persino di dare lezioni in materia di debito buono e cattivo. Chissà in quale categoria Draghi collocherebbe i derivati e i contratti capestro siglati dall’Italia all’epoca della sua permanenza al Tesoro, che sono costati al paesee che continueranno a costarci negli anni a veniredecine e decine di miliardi.

Per concludere, un piccolo quiz. Dove lavorava secondo voi il figlio di Draghi, Giacomo, all’epoca dei fatti relativi alla famigerata swaption con la Morgan Stanley, cioè tra il 2004 e il 2011? Ma che domande: alla Morgan Stanley, ovviamente!

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Bill Mitchell: Europar Batasuna: ez demokrazia, ez lege araua, ez elkartasuna, ez giza eskubideak, ez mirari ekonomikoa!

Draghi … intensified the public bond buying program and provided the private banks with cheap liquidity because he knew that the EMU was close to collapse.

(…)

Draghi came into the ECB president’s role via Goldman Sachs then the boss of the Bank of Italy.

But much earlier he was the chief Treasury official in Italy and oversaw the largest privatisation plan to date as the chair person of the national committee for privatisation.

Apparently, on June 2, 1992, in that role, he met a group of British bankers on Queen Elizabeth II’s yacht anchored near Rome to help him achieve dramatic cuts to the Italian public sector.

What followed was a massive sell-off of public companies and a massive redistribution of public wealth to the financial markets.

He sold off the utilities, the highway system, construction and energy operations and more.

His next position was with Goldman Sachs.

(…) Draghi was rat cunning neoliberal with a better smile.

(…)

But he was disaster for Europe.

He gave an interview to the Wall Street Journal, which was published on February 24, 2012 – Europe’s Banker Talks Tough.

He told the journalists that there was:

no escape from tough austerity measures and that the Continent’s traditional social contract is obsolete … Europe’s vaunted social model—which places a premium on job security and generous safety nets … is ‘already gone’ … Backtracking on fiscal targets would elicit an immediate reaction by the market …

That last point about the “market” was the exemplar of disingenuity, given he knew that the ECB could control yields at any level it chose and if need be completely deal the bond investors out of the equation.

Perry Saunders writes that in August 2011, Draghi and Trichet sent a “secret letter to the Berlusconi, then Italian prime minister, demanding that he resort to a Cold War emergency mechanism to cut pensions and other public expenditures – an unprecedented violation of its mandate by the bank.”

And while pressuring elected politicians to invoke harsh austerity which was beyond any remit of the so-called ‘independent’ central bank, they both invoked QE schemes which were obviously in violation of the no bailout clauses in the treaty.

On February 8, 2012, just before Draghi gave his WSJ interview, the Financial Times published an exposee of the way that Draghi and Trichet ran the ECB – see Eurozone crisis: A deft way to buy time.

Draghi had only just assumed his position as President (2 weeks earlier) and was confronted with the reality that the currency union was in danger of collapsing because of impending insolvencies of some Member States (including Italy).

He denied he would ramp up the QE, that Trichet had started in May 2010 under the guise of the Securities Markets Program.

At a meeting with bankers he crafted the bank bailouts at a function where the guests were “being offered white wines from the nearby Pfalz region” which provided a “wall of money” to the private sector, while publicly demanding governments hack into pensions and sell off public assets for cheap.

This was his workaround of the Treaty rules. Pump money into the private sector rather than the public sector. But eventually he had to do both and so heads were turned and eyes closed as he oversaw massive bond buying programs that were “in blatant breach of Articles 123 and 125 of the Treaty of Lisbon”.

Nahikoa eta sobera!


Ikus aurreko atala.

Iruzkinak (2)

  • joseba
  • joseba

    A SPIANARE LA STRADA A DRAGHI È STATO CONTE, NON RENZI

    Leggo in giro molte analisi nella bolla degli “eurocritici di sinistra” che compatiscono le sorti del povero Conte, tradito dal malvagio Renzi che sarebbe reo di aver spalancato le porte al cattivissimo Draghi. Francamente mi pare un’analisi ridicola.

    A livello di idraulica parlamentare potrà anche essere così, ma la verità è che se oggi Draghi – letteralmente l’incarnazione vivente del vincolo esterno – può presentarsi come il salvatore della patria che può garantire l’arrivo e il “buon uso” dei fantastiliardi dell’Europa, è precisamente perché Conte in primis ha avallato fin dall’inizio la logica del vincolo esterno, presentando il Recovery Fund come un generoso regalo di mamma Europa che lo scolaretto Italia avrebbe dovuto fare di tutto per meritarsi e “spendere bene”, e anzi senza i quali saremmo stati perduti. Insomma, Conte – sospinto da Cinque Stelle e PD – non ha fatto che alimentare l’idea dell’Italia come nazione minus habens incapace di gestire se stessa e perennemente bisognosa dell’aiuto (e a volte della “rieducazione”) di qualche “provvidenziale” attore esterno, per definizione più civilizzato e capace di noi.

    Questa è precisamente la narrazione che ha prodotto una classe dirigente completamente subalterna all’Europa e strutturalmente incapace di difendere gli interessi del paese, e che ci ha ridotti in quello “stato di minorità” che è proprio di chi sente la necessità di affidare ad altri le decisioni circa le proprie priorità e il proprio destino. Non sorprende che a farne le vittime, oltre ai comuni cittadini, siano spesso proprio i politici italiani, dediti da anni ad un’operazione di autodenigrazione di se stessi e del loro paese. Se per mesi hai ripetuto la cazzata secondo cui il Recovery Fund – nei fatti due spicci concessi a debito in cambio di condizionalità peggiori del MES – rappresenta “la più grande occasione nella storia del paese”, c’è poco da sorprendersi che oggi il popolo acclami l’arrivo dei competenti per gestire questa “opportunità storica”. Complimenti. Chi di vincolo esterno ferisce di vincolo esterno perisce.

    Espainierazko bertsioa, Google-ren bidez:

    A ALLANAR LA CALLE A DRAGONES FUE CONTE, NO RENZAS
    Leo por ahí muchos análisis en la burbuja de los ′′ eurocríticos izquierdistas ′′ que compadecen el destino del pobre Conde, traicionado por el malvado Renzi que sería reo de haberle abierto las puertas al malvado Draghi.

    Francamente, me parece un análisis ridículo. A nivel de hidráulica parlamentaria puede ser así, pero la verdad es que si Dragones-literalmente la encarnación viviente del vínculo exterior-puede presentarse como el salvador de la patria que garantiza la llegada y el ′′ buen uso ′′ de los fantastiliardos de Europa, es precisamente porque Conte en primer lugar ha avalado desde el principio la lógica del vinculo exterior, presentando el Recovery Fund como un generoso regalo de mamá Europa que el colegial italiano debería haber hecho todo lo posible para merecer y ′′ gastar bien “, y más bien sin los cuales estaríamos perdidos. En resumen, Conte – suspendido por Cinco Stelle y PD – solo alimentó la idea de Italia como nación minus habens incapaz de gestionarse a sí misma y perennamente necesitada de la ayuda (y a veces de la ′′ reeducación ′′) de algún ′′ providencial ′′ actor externo , por definición más civilizada y capaz de nosotros.

    Esta es precisamente la narrativa que produjo una clase dirigente completamente subordinada a Europa y estructuralmente incapaz de defender los intereses del país, y que nos ha reducido a ese ′′ estado de menoridad ′′ que es precisamente de quien siente la necesidad de confiar a otros las decisiones sobre sus prioridades y su destino. No es sorprendente que las víctimas, además de los ciudadanos comunes, sean a menudo los políticos italianos, dedicados desde hace años a una autodenigración de sí mismos y de su país. Si durante meses repetiste la mierda de que el Recovery Fund-en los hechos dos monedas concedidas a cambio de peores condicionalidades del MES-representa ′′ la mayor ocasión en la historia del país “, no es sorprendente que hoy el pueblo aclame la llegada de los responsables para gestionar esta ′′ oportunidad histórica “. Felicitaciones. Quien de vinculación externa hiere de vínculo externo perece.

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