Thomas Fazi-k Mario Draghi-z

(a) (https://www.facebook.com/thomasfazi/posts/3182859575140492)

Il meraviglioso mondo di Mario Draghi, in cui tutto (grazie a lui, ça va sans dire) andava alla grande in Eurolandia, peccato che poi è arrivata la pandemia a rovinare tutto.

[Tratto dal discorso di oggi di Draghi al consueto Meeting per l’amicizia fra i popoli… di Comunione e Liberazione, che molti hanno interpretato come propedeutico a una sua futura discesa in campo.

Qui la versione integrale: https://www.lastampa.it/economia/2020/08/18/news/l-intervento-integrale-di-draghi-1.39205005

(b) (https://www.facebook.com/thomasfazi/posts/3183071641785952)

MARIO DRAGHI SENZA VERGOGNA: DA ARCHITETTO DELL’AUSTERITÀ A “SALVATORE” DEI GIOVANI

Ci vuole una bella faccia tosta a chiamarsi Mario Draghi e a fare – come ha fatto l’ex presidente della BCE al consueto Meeting per l’amicizia fra i popoli di Comunione e Liberazione – un discorso tutto incentrato sui giovani. A detta di Draghi, negli ultimi anni «una forma di egoismo collettivo ha indotto i governi a [trascurare i giovani e a] distrarre capacità umane e altre risorse in favore di obiettivi con più certo e immediato ritorno politico». Ma adesso, dice Draghi, è arrivato finalmente il momento di «essere vicini ai giovani», investendo su di loro e sul loro futuro, perché «privare un giovane del futuro è una delle forme più gravi di diseguaglianza».

Parole indubbiamente condivisibili, ma che risulterebbero più credibili se chi le ha pronunciate non avesse presieduto per otto anni la più importante carica istituzionale dell’Unione europea, quella di presidente della Banca centrale europea (BCE), e in quella veste non avesse pervicacemente sostenuto le politiche di austerità fiscale che hanno condannato milioni di giovani europei alla disoccupazione, alla precarietà e all’emigrazione forzata, distruggendo le prospettive di un’intera generazione.

Ricordiamo che prima dello scoppio della pandemia – in quelli che possiamo considerare tempi “normali” – circa il 15 per cento dei giovani nell’eurozona (più di due milioni), in media, erano disoccupati, con picchi del 33 per cento in Grecia, del 32 per cento in Spagna e del 27 per cento in Italia. Numeri da capogiro, che però nascondono la tragedia umana che si nasconde dietro di essi: milioni di giovani (e ormai non più tanto giovani, a distanza di un decennio) a cui è stata negata la possibilità di costruirsi un’esistenza dignitosa, una famiglia, un futuro, costretti ad accontentarsi di sopravvivere, di mese in mese, di anno in anno, tra lavoretti precari e sottopagati, spesso lontano dal proprio paese e dai proprio affetti.

E tutto questo non è il risultato di ciò che Draghi chiama «una forma di egoismo collettivo», qualunque cosa voglia dire, ma di un regime politico-economico ben preciso fondato sull’austerità, sulla disoccupazione e sullo sfruttamento – soprattutto dei giovani –, che trova nell’architettura dell’euro la sua architrave. E che nel corso dell’ultimo decennio ha trovato in Mario Draghi uno dei suoi principali sponsor.

I giovani, infatti, non dimenticano – o così ci auguriamo – che fu proprio Draghi, nell’agosto del 2011, poco prima di assumere la carica alla BCE, e nel pieno della furia speculativa nei confronti dei titoli italiani, a inviare al governo italiano, insieme al suo Trichet, quella famosa “letterina”, che poi sarebbe entrata nella storia, in cui intimavano al governo «una profonda revisione della pubblica amministrazione», compresa «la piena liberalizzazione dei servizi pubblici locali», «privatizzazioni su larga scala», «la riduzione del costo dei dipendenti pubblici, se necessario attraverso la riduzione dei salari», «la riforma del sistema di contrattazione collettiva nazionale» e persino «riforme costituzionali che inaspriscano le regole fiscali».

I giovani non dimenticano che fu sempre Draghi a spianare la strada al governo “tecnico” di Mario Monti, e alla macelleria sociale che ne è seguita, con la sua decisione di cessare gli acquisti di titoli di Stato italiani (come ammesso dallo stesso Monti).

I giovani non dimenticano che fu sempre Draghi, appena un mese dopo il suo colpo di Stato silenzioso in Italia, a lanciare l’idea di un “patto fiscale” (“fiscal compact“): «una revisione fondamentale delle regole a cui le politiche di bilancio nazionali dovrebbero essere soggette in modo da risultare credibili». Ciò comportò, nel marzo del 2012, la firma da parte di tutti gli Stati membri dell’UE (con le uniche eccezioni di Regno Unito e Repubblica Ceca) di una versione ancora più rigorosa del Patto di stabilità e crescita istituito dal trattato di Maastricht: il cosiddetto Fiscal Compact. Esatto, quest’ultimo è un’invenzione di Draghi. Cosa la firma di questa trattato significasse per l’Europa lo spiegò lo stesso Draghi in un’intervista al Wall Street Journal pochi mesi dopo: «Non c’è alternativa al consolidamento fiscale, il modello sociale europeo appartiene già al passato».

I giovani, infine, non dimenticano che fu sempre Draghi a coniare il concetto di “pilota automatico” in riferimento alle politiche economiche dell’eurozona. In seguito alle elezioni italiane del 2013, in cui il Movimento 5 Stelle emerse come il primo partito del paese, Draghi rassicurò tutti circa i timori che questo potesse portare l’Italia fuori dai binari dell’austerità: «Gran parte dell’adeguamento fiscale che l’Italia ha intrapreso continuerà con il pilota automatico». E infatti così è stato. Il messaggio di Draghi era chiaro: grazie al nuovo regime di governance economica che egli stesso aveva contribuito a costruire, i risultati delle elezioni non avrebbero contato più nulla. Come avrebbe detto qualche anno più tardi il ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schäuble: «Le elezioni non cambiano nulla. Ci sono delle regole».

È precisamente questo processo di spoliticizzazione delle politiche economiche che ha permesso a Draghi di pronunciare il suo famoso discorso che “ha salvato l’euro” nell’estate del 2012. In quell’occasione, Draghi annunciò l’istituzione del programma OMT (Outright Monetary Transactions), con il quale la BCE si impegnava, se necessario, ad effettuare acquisti illimitati di titoli di Stato sui mercati obbligazionari secondari «per preservare l’euro». Le sue parole fecero immediatamente scendere gli interessi sui titoli di Stato europei.

Tuttavia, se da un lato questo ha aiutato i paesi in crisi (come l’Italia) ad evitare l’insolvenza, ha fatto ben poco per sostenerli in termini di rilancio delle loro economie: questo avrebbe richiesto politiche di stimolo fiscale (cioè deficit più elevati), che era esattamente ciò che il nuovo quadro di governance fiscale inaugurato da Draghi proibiva. L’accesso a un programma OMT, infatti, come abbiamo scoperto in questi mesi, comporta l’adesione da parte del paese in questione a un rigido programma di austerità fiscale e alle famigerate “condizionalità” della troika (liberalizzazione del mercato del lavoro, privatizzazione degli asset statali, compressione dei salari ecc.), all’interno della cornice del Meccanismo europeo di stabilità (MES).

In breve, le varie innovazioni istituzionali introdotte da Mario Draghi nel corso degli anni, che gli sono valse così tanti elogi, non hanno trasformato la BCE in un prestatore di ultima istanza, su cui i governi nazionali possano fare affidamento sempre e comunque, ma l’hanno resa piuttosto uno “spacciatore di ultima istanza”, con il potere di sfruttare le difficoltà economiche dei paesi per ricattarli e costringerli a implementare politiche di matrice neoliberista.

Questo è diventato evidente nell’estate del 2015, quando, nel bel mezzo del negoziato tra le autorità greche e la troika, la BCE ha deliberatamente destabilizzato l’economia greca, interrompendo il supporto di liquidità alle banche, per costringere il governo di SYRIZA ad accettare le dure misure di austerità contenute nel nuovo memorandum, un fatto pressoché senza precedenti nella storia.

Tutti questi episodi dimostrano che è soprattutto merito di Draghi se oggi possiamo dire che l’eurozona è l’unica area economica al mondo in cui non è la banca centrale ad essere dipendente dai governi, ma sono i governi ad essere dipendenti dalla banca centrale.

Come detto, a farne le spese di questa architettura infernale, di cui Draghi è uno dei principali artefici, sono stati – e continuano ad essere – soprattutto i giovani. Quegli stessi giovani che oggi Draghi vorrebbe “salvare”. Purtroppo non possiamo cambiare il passato, ma almeno possiamo cercare di evitare che Draghi costruisca il suo futuro politico su quegli stessi giovani a cui ha distrutto il futuro.

Halaber, ikus ondokoa:

Mario Draghi senza vergogna: da architetto dell’austerità a “salvatore” dei giovani

https://www.ilparagone.it/interventi/mario-draghi-senza-vergogna-da-architetto-dellausterita-a-salvatore-dei-giovani/?fbclid=IwAR3Z7BIzTqE1XZSM-svY_mwhxlwDuKET1OaQjXgi3D-CMj9ZSBLhK0Td0Lc

Iruzkinak (1)

  • joseba

    https://www.facebook.com/thomasfazi/posts/3187829991310117

    Thomas Fazi

    Ormai ho fatto pace da tempo con quella regola universale per cui su qualunque tema dello scibile umano la sinistra adotterà invariabilmente la posizione sbagliata. Ma devo ammettere che neanche io pensavo che i sinistri potessero addirittura arrivare a difendere una mostruosità come lo smart working.

    Esistono innumerevoli studi che dimostrano come lavorare faccia bene alla salute mentale non solo per ragioni economiche e di autostima, ma anche – e forse soprattutto, visto il deprimente trend salariale degli ultimi anni – per ragioni extra-economiche, in primis l’interazione professionale (il “lavoro di squadra”) e sociale con i propri colleghi, che dato il tempo che dedichiamo al lavoro (questo sì un tema di cui meriterebbe discutere) rappresenta per la maggior parte delle persone il grosso delle loro interazioni sociali.

    Non è un caso che la progressiva adozione dello smart working negli ultimi anni – scelta dettata principalmente da ragioni di massimizzazione del profitto: i risparmi per l’azienda in termini di affitto, costi energetici ecc. sono, per ovvie ragioni, notevoli -, sia associata, secondo diversi studi, a decrescenti livelli di felicità tra i lavoratori.

    Con questo non si vuole negare che il pendolarismo rappresenti una fonte di stress per molti lavoratori (soprattutto visto lo stato del trasporto pubblico) o che il lavoro stesso, per quello che è diventato, sia causa di alienazione per molti. Ma pensare che la soluzione consista nel trasformare tutti in monadi chiusi nelle proprie case a lavorare in mutande davanti a uno schermo è follia pura.

    C’è moltissimo da fare sul fronte del lavoro in termini retributivi, contrattuali, di riduzione dell’orario dello stesso ecc., ma anche di ripensamento e ampliamento del concetto stesso di lavoro, laddove questo andrebbe ridefinito come qualunque attività in cui un individuo mette le proprie conoscenze, competenze e capacità al servizio della collettività con lo scopo di far progredire materialmente e spiritualmente la collettività stessa, indipendentemente dal fatto che questa attività generi un profitto o meno, attraverso la trasformazione dello Stato in datore di lavoro di prima istanza. Così com’è c’è molto lavoro da fare sul fronte del miglioramento del trasporto pubblico.

    Ma nulla potrebbe essere più sbagliato che rinunciare all’aspetto prettamente sociale del lavoro, non solo da un punto individuale ma anche collettivo e di classe: un’ulteriore atomizzazione del lavoro, e il venire meno di qualunque occasione concreta per fraternizzare con gli altri lavoratori, rappresenterebbe un arretramento drammatico di qualunque prospettiva di emancipazione collettiva.

Utzi erantzuna

Zure e-posta helbidea ez da argitaratuko. Beharrezko eremuak * markatuta daude