Subiranotasuna ala barbareria

Sovranità o barbarie erabiltzailearen argazkia.

(https://www.facebook.com/sovranitaobarbarie/posts/272044610099266)

Titulu polita italieraz, Bill Mitchell eta Thomas Frazi-ren lana, Reclaming the State. A Pogressive Vision of Sovereignity for a Post-Neoliberal World, izendatzeko.

Egon baledi euskal editorial bat lan eder hori euskaraz jartzeko, agian, beharbada, akaso, who knows?, Granada honetan omen daude hainbat ezkertiarrek aukera izan lezakete zertxobait ikasteko, eta, tartean, mito asko alboratzeko.

Blog honetan lan horretaz zertxobait plazaratu dugu. Hona hemen zipriztin batzuk:

Estatua eskatuz, nonahi

Estatua eskatuz (Reclaiming the State)

Thomas Fazi-ri egindako elkarrizketa (espainieraz)

G-7 delakoaren aurkako zeregin zuzena: Estatua eskatuz

Bill Mitchell eta Thomas Fazi: liburu berriaz

Gehigarri batzuk ere:

Nazio-estatua ezina omen da

Dirua eta boterea

Islandia: eredurik ereduena

Islandia: eredurik ereduena (power point)

Globalizazioa, neoliberalismoa, nazio-estatua eta ezkerra

Estatua gu geu gara

Estatua botererik gabekoa ote da?

Nazio-estatu txikiez hitz bi

Ekonomiaz jakin nahi zenuen eta galdetzeko ausartu ez zinen ia guztia (eguneraketa) 

Moneta propiorantz (edozein delarik haren izena)

Eta hemen italierazko bertsioari egindako hitzaurrea:

Prefazione

di Carlo Formenti

Il libro che avete in mano è il primo di una nuova collana dell’editore Meltemi, diretta da chi scrive e intitolata “Visioni eretiche”. Titolo paradossale, ove si consideri che le “eresie” in questione altro non sono che la riproposizione di princìpi, teorie, concetti, ideali e punti di vista che, fino agli anni Settanta del secolo scorso, rappresentavano un patrimonio comune a tutto il movimento operaio internazionale (sia pure con varie sfumature, a seconda dei partiti e dei movimenti che si sforzavano di metterlo in pratica nei diversi contesti nazionali). Se oggi quelle idee appaiono eretiche, al punto da esporre chi le sostiene alle accuse di “rossobrunismo” da parte della nuova ortodossia, è perché tutte le sinistre – dai socialdemocratici più moderati agli antagonisti più radicali – hanno subìto, nel giro di qualche decennio, una mutazione culturale, politica, direi quasi “antropologica”, di portata tale da cambiarne il codice genetico. La collana intende condurre una battaglia senza quartiere contro tale mutazione, denunciandone l’impatto devastante sui rapporti di forza e sulle condizioni di vita e di lavoro delle classi subalterne. Tuttavia l’obiettivo non è solo evidenziare il contributo decisivo che queste sinistre “degenerate” hanno dato al successo della controrivoluzione neoliberista: si tratta anche di recuperare strumenti politico-culturali in assenza dei quali non è pensabile condurre una controffensiva popolare contro le élite politiche e finanziarie transnazionali.

Non credo si sarebbe potuto trovare un lavoro più adatto a inaugurare questa impresa di Sovranità o barbarie. Il ritorno della questione nazionale, di Thomas Fazi e William Mitchell, un libro che già dal titolo prende il toro per le corna, affrontando di petto quello che è il tasto più dolente della perdita di orientamento delle sinistre mainstream, vale a dire la rimozione della consapevolezza che lo Stato-nazione è la sola cornice in cui le classi subalterne possano sperare di migliorare le proprie condizioni e allargare gli spazi di democrazia. Nello spazio limitato di questa prefazione, non mi è possibile

riassumere le lunghe, articolate e complesse argomentazioni con cui Fazi e Mitchell sostengono la loro tesi.

Mi limiterò perciò: 1) a descrivere alcune domande fondamentali cui gli autori tentano di rispondere (perché il compromesso keynesiano fra capitale e lavoro ha funzionato; per quali ragioni è entrato in crisi; perché le sinistre non hanno capito le ragioni del suo successo né quelle della sua crisi; attraverso quali canali le idee liberali sono riuscite a contaminare la cultura socialista); 2) a riassumere il modo in cui ricostruisce le tappe del processo di desovranizzazione, depoliticizzazione e de-democratizzazione che il nostro paese ha subìto dagli anni Settanta all’ingresso nella UE, con particolare attenzione tanto all’iniziale resistenza quanto alla successiva collaborazione delle sinistre; 3) a spiegare le ragioni per cui solo lo sganciamento da questa Europa può restituire al popolo italiano il controllo democratico sul proprio destino, smontando i falsi miti con cui si tenta di dimostrare l’impossibilità di tale sganciamento.

1. La lunga stagione keynesiana è stata una parentesi felice nella storia del capitalismo moderno: ha garantito elevati tassi di crescita economica, alti livelli di occupazione, salari e profitti crescenti, un’estensione dei diritti sociali ed economici mai conosciuta nelle ere precedenti, nonché una relativa stabilità finanziaria a livello internazionale (pur senza dimenticare che a usufruire di tali benefici sono stati quasi esclusivamente i paesi del centro, mentre le periferie e le semiperiferie del sistema mondo ne furono escluse). Le sinistre si erano illuse che il compromesso fra capitale e lavoro associato a questa situazione storica fosse irreversibile, se non addirittura un passo intermedio verso la transizione a una società postcapitalista, per cui la sua crisi le trovò del tutto impreparate.

Quello che non fu compreso, argomentano Fazi e Mitchell, è che a rendere possibile la parentesi dei “trenta gloriosi” è stata la sua funzionalità a uno specifico regime di accumulazione capitalista – il fordismo – associato a un modo di regolazione politica dell’economia fondato sull’interventismo statale. A entrare in crisi non fu la “visione” keynesiana, scalzata, secondo un’interpretazione idealista, dal pensiero controegemonico dei monetaristi alla Milton Friedman, anche se è vero che il neokeynesismo “imbastardito” della sintesi neoclassica si era dimostrato incapace di spiegare le ragioni della stagflazione che colpì le economie occidentali negli anni Settanta. A entrare in crisi furono piuttosto il regime di accumulazione e il modo di regolazione dell’era fordista, stretti nella morsa della pressione crescente che i salari esercitavano su rendite e profitti, dell’aumento dei prezzi delle materie prime e dell’accresciuta concorrenza internazionale dovuta alla rinascita industriale di Germania e Giappone. A obnubilare la capacità di analisi dei movimenti operai, indebolendone la volontà di opporsi ai primi passi della controrivoluzione neoliberale, sostengono gli autori, contribuì anche il diffondersi di teorie nate negli stessi ambienti di sinistra: in primo luogo, l’accettazione della tesi secondo cui una delle cause fondamentali della crisi era la spirale incontrollata della spesa pubblica (vedi il successo del famoso saggio di James O’Connor sulla crisi fiscale dello Stato), poi il mito secondo cui il successo delle multinazionali – nella misura in cui neutralizzava i poteri di regolazione dello Stato-nazione – rendeva di fatto impossibile praticare il “keynesismo in un solo paese”. Lascio al lettore il compito di esplorare gli argomenti con cui Fazi e Mitchell smontano queste due tesi; quel che è certo e documentato è che, a partire da quella svolta “rigorista” sul piano interno e “globalista” sul piano internazionale, le sinistre assunsero in prima persona il ruolo di becchini delle politiche keynesiane: se gli Stati non subirono passivamente la controrivoluzione neoliberista ma ne furono attivi promotori, il “merito” spetta, ancora prima che ai governi conservatori di Ronald Reagan e Margaret Thatcher, alla svolta che James Callaghan impose al Labour Party alla metà degli anni Settanta, dopo avere liquidato la sinistra interna di Tony Benn, e alla retromarcia che il presidente francese Mitterrand, “ispirato” dal ministro social-liberale Jacques Delors, compì all’inizio degli anni Ottanta, convertendosi al liberismo dopo essere stato eletto con un programma radicale di trasformazione in senso socialista dell’economia.

2. La traiettoria appena descritta si ripete in Italia con caratteristiche peculiari. In primo luogo, ad accentuare la connotazione “sociale” delle politiche keynesiane che hanno trainato il boom postbellico del nostro paese, avevano potentemente contribuito i princìpi contenuti nella nostra Carta fondamentale: l’insistenza sui temi della tutela del lavoro, sulla promozione dell’uguaglianza sostanziale, sulla limitazione del carattere “assoluto” del diritto di proprietà, ecc., espressione della parziale convergenza fra le visioni comunista, socialista e cattolica, fanno sì che la Costituzione italiana sia di gran lunga la più avanzata fra tutte quelle adottate dai paesi emersi dal fascismo e dalla guerra. Contro questo compromesso “cattocomunista” – come sarebbe stato sprezzantemente liquidato dopo la crisi dei Settanta – è sempre esistita, scrivono Fazi e Mitchell, una strisciante opposizione liberale che ha avuto i suoi interpreti più autorevoli nelle persone dei vari Einaudi, Carli e Ciampi. Tutti costoro hanno sempre nutrito grandi aspettative e speranze nel progetto europeo, nel quale intravedevano – sulla scorta delle idee di von Hayek – un’opportunità per neutralizzare l’anomalia italiana. Citando ampi stralci dai discorsi e dagli scritti di Togliatti, Basso, Di Vittorio e altri esponenti storici della sinistra italiana, gli autori mettono in luce la loro profonda diffidenza, se non aperta avversione, contro ogni “annegamento” dello Stato italiano in una qualsiasi istituzione sovranazionale europea. Le loro parole, oltre alla consapevolezza del fatto che l’internazionalismo proletario non ha alcunché da spartire con il cosmopolitismo delle élite borghesi, esprimevano un’ancora più chiara consapevolezza che la sovranità nazionale era il presupposto indispensabile di qualsiasi realizzazione dei bisogni e degli interessi delle classi subalterne.

A partire dagli anni Settanta, tuttavia, anche in Italia si attivano inediti canali di penetrazione del pensiero liberale nella cultura di sinistra: Fazi e Mitchell citano, in proposito, il ruolo di un economista come il premio Nobel Franco Modigliani nel diffondere il verbo monetarista all’interno del PCI. Anche se la mutazione sarà relativamente più lenta di quella avvenuta in altri paesi europei, gli effetti di questa “contaminazione” non tarderanno a farsi sentire, come apparirà chiaro già negli anni Settanta, allorché Enrico Berlinguer tesserà l’elogio dell’austerità come strumento per rilanciare crescita e occupazione. Dai primi anni Ottanta all’ingresso nell’area dell’euro, la frana diverrà inarrestabile. I Carli, gli Andreatta, i Ciampi e il grande privatizzatore Prodi avranno mano libera per scandire le tappe di una marcia accelerata verso la desovranizzazione, depoliticizzazione e de-democratizzazione dello Stato italiano: adesione allo SME, “divorzio” fra Tesoro e banca centrale, approvazione del Trattato di Maastricht, fino al colpo di grazia della rinuncia al potere di emissione della moneta e all’integrazione nell’area dell’euro, che imporrà la costituzionalizzazione del neoliberismo e il divieto di adottare politiche keynesiane. Un processo, sostengono Fazi e Mitchell, che sarebbe sbagliato interpretare come “indebolimento dello Stato”. Lasciando questa diagnosi ai deliri di Antonio Negri, il quale, in ossequio alla sua visione antistatalista e antisovranista, sogna orizzonti imperiali pacificati in cui la transizione al comunismo sarà l’esito naturale di un’evoluzione spontanea, conviene prendere atto che proprio gli Stati – a partire dal nostro – hanno scelto autonomamente di subordinare le proprie scelte a vincoli esterni, il che non significa che si sono suicidati, bensì che hanno attuato con successo i loro progetti di indebolimento delle classi lavoratrici e di svuotamento della democrazia.

3. Non è un caso se il titolo del libro che sto presentando, Sovranità o barbarie, evoca il celebre slogan delle sinistre prima della conversione al liberismo, socialismo o barbarie1. Nello snodo cruciale degli anni Settanta, sostengono Fazi e Mitchell, l’unica via di uscita dalla crisi del modello keynesiano sarebbe stato il salto a un modo di produzione postcapitalista, ed era esattamente a questo che alludevano i programmi della sinistra laburista di Tony Benn e del Mitterrand prima maniera: piena occupazione, espansione del welfare, redistribuzione della ricchezza, nazionalizzazione delle aree economiche strategiche, controllo democratico sulle decisioni di investimento e produzione, pianificazione industriale, asservimento della finanza ai bisogni della collettività. Tali obiettivi si sarebbero potuti realizzare solo mantenendo una rigorosa autonomia dello Stato-nazione, a partire dalla sovranità monetaria e dalla conseguente possibilità di finanziare il fabbisogno della spesa pubblica attraverso l’emissione di moneta. Dopo decenni di sistematico smantellamento di tale autonomia, non resta altra alternativa se non riconquistare la sovranità nazionale e popolare come presupposti irrinunciabili per rilanciare un progetto politico socialista, per rilanciare, cioè, quei programmi che furono accantonanti quarant’anni fa.

Fazi e Mitchell dedicano le pagine conclusive del loro lavoro a smontare due miti: quello secondo il quale la finanza pubblica funzionerebbe esattamente come quella di una famiglia o di un’impresa, per cui sarebbe buona regola astenersi dal “vivere al di sopra dei propri mezzi”; e quello in base al quale la capacità di spesa dello Stato dipende sostanzialmente dalle entrate fiscali. Nel regime subentrato alla svolta di Bretton Woods, argomentano Fazi e Mitchell, il compito fondamentale della politica fiscale non è finanziare la spesa pubblica bensì redistribuire la ricchezza, laddove, in una situazione che vedesse la riunificazione fra Tesoro e banca centrale, la spesa potrebbe essere finanziata creando moneta dal nulla (la differenza fra imprese e famiglie da un lato e Stato dall’altra, ricordano Fazi e Mitchell, è che i primi sono utilizzatori di moneta mentre il secondo la emette). L’unico vincolo reale alla quantità di moneta che può essere emessa è il rischio di generare un tasso eccessivo di inflazione (il rischio che terrorizza gli eurocrati ordoliberisti al servizio del progetto imperiale tedesco), ma tale rischio può essere evitato a condizione che la crescita della spesa non superi la capacità produttiva dell’economia nazionale.

Perché questa via non potrebbe essere imboccata dall’Unione europea piuttosto che dai singoli Stati nazionali, potrebbero replicare gli europeisti “critici”. Per il semplice motivo che non è pensabile democratizzare uno spazio politico strutturalmente postdemocratico, che è stato creato con l’esplicita finalità di de-democratizzare e depoliticizzare i processi decisionali concentrandoli nelle mani di una ristretta élite, in modo da annientare i rapporti di forza delle classi subalterne. È come se, mi permetto di aggiungere, qualcuno avesse rivolto ai regimi fascisti degli anni Trenta l’invito a realizzare riforme democratiche. Paragone forzato? Provate a chiedere al popolo greco cosa ne pensa.


Hego Euskal Herrian Sozialismo ala Barbareria izeneko mugimendu libertario bat egon zen, 1970eko hamarkadaren lehen urteetan.

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