Thomas Fazi-ri egindako elkarrizketa

INTERVISTA A THOMAS FAZI

Thomas Fazi è un giornalista, saggista e traduttore italiano, tra i più importanti divulgatori della MMT nel nostro paese. In questi anni ha pubblicato due importanti libri: “La battaglia contro l’Europa” e “Sovranità o barbarie”.

In rete è possibile trovare numerosi suoi articoli pubblicati per Senso Comune e Sbilanciamoci o raccolti nella famosa piattaforma Sinistra in rete. Possiede un proprio sito web.

1. Lei è uno dei massimi esperti della MMT in Italia. Vorrei sapere che legami ha questa teoria economica con il marxismo e la ritiene la chiave per rilanciare l’economia italiana?
1. Innanzitutto ci tengo a precisare che io, più che un esperto, mi ritengo un mero
divulgatore della MMT che ha avuto la fortuna di conoscere e di lavorare a stretto contatto con uno dei fondatori della teoria in questione, Bill Mitchell – lui sì un vero esperto –, e dunque di abbeverarsi direttamente alla fonte del sapere, per così dire! Fatta questa doverosa premessa possiamo continuare. Ora, a prima vista i legami tra la MMT e la teoria marxista potrebbe apparire piuttosto deboli. Quest’ultima si occupa soprattutto dei rapporti interni al mondo della produzione, mentre la MMT si occupa soprattutto dei rapporti tra la sfera della produzione e quella delle politiche economiche e in particolare delle politiche di bilancio. In questo senso, la MMT ha un rapporto molto più stretto con la teoria keynesiana e soprattutto post-keynesiana, di cui rappresenta per certi versi un’evoluzione. Se analizziamo la questione più a fondo, però, emergono diversi punti di contatto con la teoria marxista. La MMT, infatti, mostra come i rapporti di forza interni al mondo della produzione – quelli, cioè, che intercorrono tra capitale e lavoro – siano una diretta conseguenza delle politiche economiche, nella misura in cui sono queste ultime a determinare, tra le altre cose, il tasso di occupazione e dunque il potere contrattuale delle classi lavoratrici. L’analisi della MMT è dunque implicitamente un’analisi di classe (ma per certi versi lo stesso si potrebbe dire, per gli stessi motivi, anche della teoria (post-)keynesiana, a prescindere dagli usi e abusi che ne sono stati fatti nel corso della storia). La stessa proposta di lavoro garantito (Job Guarantee) sostenuta da molti teorici della MMT – in cui lo Stato si farebbe carico di offrire un lavoro retribuito a chiunque ne voglia uno –, sebbene formalmente finalizzata al controllo dell’inflazione, nasce proprio dalla consapevolezza dello squilibrio strutturale che esiste tra lavoratori e capitalisti: questi ultimi possono permettersi di non assumere un lavoratore, ma un lavoratore (un proletario, si sarebbe detto un tempo), in assenza di interventi pubblici “correttivi”, è di fatto costretto a vendere la propria forza-lavoro sul mercato, alle condizioni dettate da quest’ultimo. Togliere questo potere di ricatto ai capitalisti, garantendo ai lavoratori un impiego nel settore pubblico, aumenterebbe enormemente il potere contrattuale de lavoratori. Ciò detto, affibbiare un preciso orientamento alla MMT sarebbe sbagliato, nella misura in cui essa è una teoria descrittiva e non prescrittiva. Sarebbe a dire che essa mostra come funzionano effettivamente i moderni sistemi monetari e quali sono le reali opzioni a portata di mano dei governi che dispongono della sovranità monetaria (e, per converso, quali sono i limiti dei governi che non ne dispongono). Potremmo dire che, così come Marx ha sollevato il velo ideologico neoclassico per disvelare la realtà dei rapporti capitalistici di proprietà e di produzione, la MMT solleva il velo ideologico neoliberale per disvelare la realtà dei moderni sistemi monetari (e i vincoli autoimposti utilizzati per mascherare questa realtà e come questi influenzino i suddetti di proprietà e di produzione ovverosia i rapporti di classe: basti pensare all’importanza dell’ideologia della scarsità del denaro nel far accettare le politiche di austerità alle masse). Tale comprensione può poi essere messa al servizio degli obiettivi più disparati, tanto di matrice liberista (come è spesso il caso: vedasi i governi che se ne infischiano del deficit pubblico quando si tratta di regalare soldi alle banche o tagliare le tasse ai ricchi) quanto di matrice socialista. Tuttavia, non c’è alcun dubbio, per quanto mi riguarda, che l’implementazione di un programma socialista (o anche solo moderatamente socialdemocratico) non possa prescindere dalla comprensione dei moderni sistemi monetari – e dell’importanza del controllo della valuta – offerta dalla MMT. In breve, se mi passate una battuta (ma neanche troppo), non è pensabile prendere possesso dei mezzi di produzione senza prendere possesso anche dei mezzi di produzione della moneta. Per quanto riguarda l’Italia, il pregio principale della MMT consiste nel mostrare come il recupero della sovranità monetaria sia una condizione assolutamente essenziale per rilanciare l’economia – che richiederebbe uno stimolo fiscale assolutamente irrealizzabile senza disporre del controllo della leva monetaria – ma soprattutto, da una prospettiva progressiva, per rilanciare l’occupazione e il welfare. E per poter tornare a considerarci una democrazia, quantomeno da un punto di vista formale.

2. Notoriamente lei si oppone all’UE. Vorrei sapere cosa ne pensa delle proposte di riforma dell’UE provenienti da sinistra o di progetti alternativi come l’ALBA euromediterranea del professor Vasapollo?
2. Le ritengo, nella migliore delle ipotesi, estremamente ingenue. Per quanto riguarda l’Unione europea e in particolare l’unione monetaria, credo che sia sotto gli occhi di tutti oramai come si tratti di istituzioni assolutamente non riformabili in senso progressivo (il che non esclude affatto una loro riforma in senso peggiorativo, basti pensare alla proposta di riforma del MES) né tantomeno democratizzabili. E la ragione di fondo risiede nella natura di classe del progetto europeo. La costituzione economica e politica dell’Unione europea è strutturata precisamente per produrre i risultati che stiamo vedendo – l’erosione della sovranità popolare, il trasferimento di ricchezza dalle classi medio-basse a quelle alte, l’indebolimento del lavoro e più in generale lo smantellamento delle conquiste democratiche ed economico-sociali che erano state precedentemente raggiunte dalle classi subordinate – e per impedire proprio il tipo di riforme cui aspirano gli integrazionisti/federalisti di sinistra. In tal senso, non è dato comprendere perché le élite nazionali ed europee dovrebbero acconsentire a delle riforme che andrebbero inevitabilmente a ridurre il loro potere (nella misura in cui qualunque avanzamento sul fronte occupazionale e/o democratico andrebbe ad aumentare il potere contrattuale delle classi subalterne). Alla stessa conclusione era giunto anche Luciano Gallino poco prima della sua scomparsa: «Nessuna realistica modifica dell’euro sarà possibile», scrisse, in quanto esso è stato progettato «quale camicia di forza volta a impedire ogni politica sociale progressista, e le camicie di forza, vista la funzione per cui sono state create, non accettano modifiche “democratiche”». A ciò si potrebbe obiettare che, nella misura in cui tali riforme sono oggi irrealizzabili alla luce degli attuali equilibri politici in seno all’Unione europea, una modifica di quegli equilibri potrebbe rendere le suddette ipotesi di riforma attuabili. Da un punto di vista tecnico-istituzionale, però, anche questa strada è preclusa: basti pensare che una riforma dei trattati richiederebbe l’unanimità di tutti i paesi membri nel Consiglio europeo, il che presupporrebbe la simultanea salita al potere di governi sinceramente progressivi (e che condividano le stesse prospettive di riforma) in tutti i paesi dell’Unione. Non occorre essere particolarmente pessimisti per arrivare alla conclusione che ciò non accadrà mai. Ma il punto vero è un altro: tutte queste proposte di riforma non sono solo irrealizzabili ma anche e soprattutto inauspicabili. Se anche emergesse un consenso tra le classi dirigenti europee per la creazione di un’architettura europea più propriamente politica e democratica dal punto di vista formale (primato del Parlamento europeo ecc.), si tratterebbe nella migliore delle ipotesi di una “democrazia” a bassissima intensità – e dunque intrinsecamente instabile –, data l’assenza di un demos europeo che possa infondere legittimità a tali istituzioni. E questo senza considerare che i rischi connessi alla cattura del processo democratico da parte delle oligarchie economiche (per mezzo di attività di lobbying ecc.) vengono fortemente accentuati a livello sovranazionale; è per questo motivo che, in generale, il trasferimento di sovranità a centri di decisione politica internazionali/sovranazionali contribuisce all’indebolimento del controllo popolare. In ultima analisi, solo attraverso la restituzione degli strumenti di politica economica ai singoli Stati sarà possibile recuperare spazi di agibilità democratica, promuovere il progresso sociale e così porre le basi per una reale collaborazione tra i paesi europei. Molte delle suddette obiezioni, infatti, potrebbero essere mosse anche alle varie proposte di unione euromediterranea. Se siamo nell’ambito di una collaborazione tra Stati sovrani – soprattutto dal punto vista monetario – mi va benissimo, ovviamente; ma se parliamo di mettere in comune la moneta o altri strumenti di politica economica, seppur tra paesi economicamente meno eterogenei e culturalmente più simili, allora la mia opposizione è netta, poiché si riproporrebbero molti dei problemi che oggi vediamo nell’eurozona, con un altro paese – magari l’Italia stessa? – nel ruolo della Germania. Il punto che la sinistra dovrebbe mettersi in testa è che le unioni monetarie non funzionano. Punto.

3. Come risponde alle critiche che vengono dal mondo marxista alla MMT? Penso ad esempio a Michael Roberts che la definisce come una forma post-keynesiana di cartalismo.
3. Le considero piuttosto risibili nella misura in cui le critiche principali mosse dai marxisti alla MMT sono sostanzialmente tre: 1) la MMT non avrebbe una prospettiva di classe; 2) la MMT, in quanto sostiene che le tasse non finanziano la spesa pubblica, sarebbe contraria a tassare i ricchi; 3) la MMT, come il keynesismo, rappresenterebbe una soluzione volta a riformare il capitalismo, non ad abbatterlo. In merito al primo punto ho già risposto: semmai sono i marxisti che non comprendono quanto l’architettura monetaria e fiscale di un paese incida sulla lotta di classe. Per quanto riguarda il secondo punto: al netto del fatto che, come già detto, non esistono delle prescrizioni “ufficiali” della MMT in materia di politica fiscale o di altro tipo, ma solo le opinioni personali (e spesso contrastanti) di economisti riconducibili alla scuola MMT, trarre dal postulato secondo cui le tasse non finanziano la spesa pubblica – un fatto oggettivo – la conclusione che, dunque, non vi sarebbe alcun bisogno di tassare i rischi rappresenta un palese non sequitur. Ciò che la MMT mostra è che uno Stato che dispone della sovranità monetaria non dipende dai ricchi per finanziare qualunque programma di spesa scelga di perseguire; questo non significa che non vi siano altre validissime ragioni per tassare i ricchi: in primis, ridurre il loro potere economico e dunque politico all’interno della società, come io e Mitchell abbiamo sostenuto in più occasioni. Lo stesso dicasi delle tasse sulle imprese: l’obiettivo non dovrebbe essere quello di fare cassa ma semmai di scoraggiare o incoraggiare comportamenti ritenuti dannosi o virtuosi. Infine, per quanto riguarda l’ultimo punto: ho sempre ritenuto piuttosto ridicolo il dibattito su riformismo versus rivoluzione (spesso declinato in termini di una presunta dicotomia keynesismo-socialismo). A prescindere dagli obiettivi di lungo periodo che uno sceglie di darsi, è evidente che, nella data congiuntura, una politica di stampo “keynesiano” – nella forma di una riconquista delle leve di politica monetaria e fiscale al fine di rilanciare l’occupazione – rappresenta un passaggio obbligato verso una più radicale socializzazione dell’economia; allo stesso tempo, sottrarre una parte cospicua dell’investimento e della produzione (e dunque dell’occupazione) alla logica del profitto si rivelerà probabilmente inevitabile nella misura in cui non paiono esserci oggi le condizioni per un “compromesso di classe” in stile keynesiano ed è dunque lecito aspettarsi l’indisponibilità del capitale privato a qualunque misura che vada a ledere il proprio controllo sulla società. In entrambi i casi, le intuizioni della MMT sono assolutamente fondamentali. Una nota “di colore” finale: l’aspetto più grottesco di molte delle critiche marxiste è che spesso si basano su assunti macroeconomici del tutto ortodossi, come l’idea che “stampare moneta provocherebbe iperinflazione” o “svaluterebbe il tasso di cambio”, nozioni a cui ormai non credono più neanche gli economisti mainstream. Dei sedicenti giacobini più realisti del re, insomma.

4. Da quello che ho potuto leggere, nei suoi lavori noto una certa vicinanza al pensiero di Keynes. Mi vengono allora in mente due esempio del rapporto tra questo brillante economista e la tradizione marxista. Chi accetta la sfida posta da Keynes alla teoria economica, come Paul Baran e Sweezy che scriveranno uno dei testi simbolo del ‘68 “Il capitale monopolistico. Saggio sulla struttura economica e sociale americana” e chi fin da subito muove delle critiche interessanti come Paul Mattick ma anche ad esempio Kalecki che dimostrò l’impossibilità della piena occupazione nel capitalismo. Come si pone nei confronti di queste diverse interpretazioni marxiste di Keynes?
4. Le trovo tutte interessanti, benché molte di esse siano viziate da errori macroeconomici. Si pensi per esempio a tutto il dibattito marxista degli anni Settanta (i cui strascichi arrivano fino ai giorni nostri) sulla presunta “crisi fiscale dello Stato” – un’analisi viziata dall’idea che la moneta sia una risorsa scarsa. Mi ritrovo invece completamente d’accordo con l’analisi di Kalecki sui limiti politici della piena occupazione in un contesto capitalistico. L’errore, però, a mio avviso – e mi riallaccio a quello che dicevo poc’anzi – è quello di interpretare questo dibattito come una sorta di “sfida” tra marxismo (e prospettiva socialista più in generale) e keynesismo. Come già detto, io non vedo alcun conflitto tra i due. Tutt’altro. L’errore di fondo, comune ai marxisti, sta nel considerare il keynesismo come un’ideologia ben definita, sostanzialmente finalizzata a “salvare il capitalismo da sé stesso” piuttosto che a superarlo. Al contrario, io interpreto l’impianto (post-)keynesiano alla stregua di come interpreto l’impianto – per certi versi simile – della MMT: come una lente attraverso cui comprendere gli strumenti a disposizione di uno Stato per raggiungere determinati obiettivi politico-economici anche molto diversi tra loro. Tra questi obiettivi ci metto anche il socialismo democratico (nelle sue varie declinazioni, più o meno radicali), a cui non vedo come si possa arrivare senza ricorrere agli strumenti del (post-)keynesismo e della MMT, giacché la teoria marxista è notoriamente povera di prescrizioni “tecniche” sugli assetti economici, politici ed istituzionali – e più in generale sulla forma-Stato – di cui dotarsi per conseguire l’obiettivo della democratizzazione dell’economia e della progressiva socializzazione dei mezzi di produzione.

5. Nelle sue idee per uscire dall’attuale crisi economica che spazio ha il pensiero di Minsky e la sua difesa di un capitalismo interventista?
5. Sono un grande ammiratore del pensiero di Minsky. A mio avviso, lui esprime benissimo l’idea che gli strumenti di politica economica (post-)keynesiani possano essere messi al servizio di obiettivi ben più radicali di quanto non sia stato fatto nel cosiddetto trentennio keynesiano. Minsky fu uno dei pochi a capire che, a fronte dell’evidente impossibilità di trovare una soluzione consensuale al conflitto capitale-lavoro che si venne a determinare negli anni Settanta, la crisi del cosiddetto “compromesso di classe keynesiano” non poteva poteva che risolversi a favore dell’una o dell’altra parte: a favore del capitale (per mezzo di una riduzione dei salari e più in generale del potere dei sindacati, come poi è stato) o a favore dei lavoratori, per mezzo di quella graduale “socializzazione degli investimenti” – finalizzata a sottrarre una parte cospicua dell’investimento alla logica del profitto, all’interno di una regolamentazione complessiva dell’investimento privato – che lo stesso Keynes indicava come unica soluzione alla naturale tendenza al ristagno del capitalismo sviluppato e che Minsky considerava come una sorta di “via lenta al socialismo”. Purtroppo le sinistre occidentali non ebbero la consapevolezza, la forza o il coraggio per perseguire questa strada, finendo dunque per gestire la crisi del capitale per conto del capitale. Le conseguenze le conosciamo.

6. In “Sovranità o barbarie” cerca di mettere in risalto il possibile ruolo centrale dello Stato nell’economia, oltre a difendere correttamente la necessità di rompere la gabbia europea.
Come può agire lo Stato in un’economia-mondo che sembra rilanciare la competizione tra macro-aree e rompere il rapporto di dipendenza con il centro del polo imperialista europeo prodotto dal mercantilismo tedesco?
6. Ritengo questo approccio – che potremmo definire “geopoliticista” – fallace e pericoloso allo stesso tempo. Fallace perché ritengo falsa – e totalmente strumentale all’ideologia globalista dominante – l’idea che oggi ci troveremmo in una fase strutturalmente inedita della globalizzazione capitalistica, tale addirittura da costringerci a ripensare la forma-Stato per come l’abbiamo conosciuta finora. La competizione tra macro-aree è sempre esistita: la Cina e l’Occidente, tanto per fare un esempio, già si facevano le guerre commerciali nel diciottesimo secolo. Così come sono sempre esistiti paesi economicamente e commercialmente dominanti. Questo in passato non ha impedito a Stati delle dimensioni più svariate di prosperare. Per questo motivo considero infondata l’idea, promossa incessantemente dal mainstream e avallata da buona parte della sedicente sinistra (tra cui anche diversi marxisti), secondo cui l’attuale contesto globale ci costringerebbe a muovere verso forme di aggregazione politica più ampie – magari di natura sovranazionale – per poter “stare a galla nel mare magnum della globalizzazione”, per usare un’accezione molto diffusa. Se così fosse non si spiegherebbe perché in media quei paesi che appartengono all’esempio di aggregazione-integrazione sovranazionale più avanzata che esista oggi al mondo – l’Unione europea e in particolare l’unione monetaria – e che dunque secondo la narrazione dominante dovrebbero essere maggiormente in grado di fronteggiare la competizione internazionale, abbiano registrato nell’ultimo decennio livelli occupazionali e di crescita inferiori alla media dei paesi sviluppati, inclusi quei paesi europei che non hanno aderito all’euro e detengono ancora la propria valuta (Islanda, Norvegia, Svezia, Svizzera ecc.). E la ragione è presto detta: se proprio si vuole competere con i nuovi giganti dell’economia mondiale come la Cina – obiettivo in sé alquanto discutibile, come spiegherò – ciò che conta non è tanto la “stazza” di un paese quanto la sua capacità di disporre di tutte le leve della politica economica (politica monetaria, di bilancio e del cambio) per poter accrescere la propria competitività, tanto in termini di offerta e di qualità (per mezzo della politica industriale) che di prezzo. In questo senso la UE, con la sua ossessione per il rigore fiscale ed i suoi ostacoli all’intervento pubblico, lungi dal proteggerci dalle grandi potenze, ci espone alla loro mercé. Non è un caso, infatti, se oggi tutti i paesi europei – inclusa l’Italia – spalancano le porte agli investimenti cinesi, giacché gli è preclusa la possibilità di realizzare investimenti pubblici dagli assurdi vincoli di bilancio europei, mentre non esiste una politica di investimento europea degna di questo nome. Come dice Alberto Bradanini, ambasciatore a pechino tra il 2013 e il 2015 (quindi non esattamente il tipico “sovranista”): «L’Italia potrà qualche beneficio da un’interlocuzione con la Cina se, dopo aver recuperato la propria sovranità monetaria, saprà avviare una politica economica degna di questo nome, riavviando il tessuto industriale ridottosi del 20 per cento nell’ultimo decennio e investendo massicciamente su innovazione e ricerca. In assenza di ciò, l’Italia è destinata a raccogliere solo poche briciole dal dialogo con la Cina». Insomma, non solo un paese come l’Italia potrebbe benissimo “tenere testa” alle grandi potenze fuori dall’euro ma, come dice Bradanini, potrebbe farlo solo fuori dall’euro. Considero altrettanto fallace l’argomentazione, anch’essa cara a certi marxisti, secondo cui la diffusione delle cosiddette “catene globali del valore”, cioè la dispersione internazionale della produzione, presupporrebbe inevitabilmente un movimento verso forme sempre più avanzate di integrazione commerciale (come il mercato unico europeo) e monetaria (come, appunto, l’euro) e che – per contro – le monete nazionali, i cambi fluttuanti e più in generale qualunque ostacolo posto alla libera circolazione delle merci e dei capitali sarebbero da intendersi come fondamentalmente incompatibili con la “globalizzazione” e con il commercio internazionali (ammesso e non concesso che questi siano degli obiettivi in sé auspicabili). In realtà i dati mostrano che né il commercio internazionale, né la partecipazione alle catene globali del valore richiedono “mercati unici” né tantomeno monete uniche. Anzi. Questo è confermato da tutti i principali studi sul tema, che non hanno trovato alcuna correlazione positiva tra integrazione monetaria e commercio internazionale, né alcuna prova che le fluttuazioni dei tassi di cambio e i relativi “costi di transazione” rappresentino un impedimento al commercio e/o all’integrazione produttiva. Come scrive Costas Lapavitsas: «Il punto cruciale da osservare è che le principali trasformazioni dell’economia mondiale a cui abbiamo assistito nel corso degli ultimi quattro decenni, tra cui lo sviluppo delle nuove tecnologie, la diffusione delle catene globali del valore, la crescita del commercio e l’ascesa della Cina, non hanno necessitato di condizioni analoghe a quelle del mercato unico europeo. Semmai è proprio l’ideologia del mercato unico a rappresentare un residuato di un’altra epoca». Come accennavo all’inizio, però, considero questo tipo di argomentazioni – che ho definito “geopoliticiste” – non solo errate ma anche pericolose, nonché del tutto incompatibili con una prospettiva socialista. In primo luogo, perché accettano – implicitamente o esplicitamente – la logica mercantilista e liberoscambista propugnata dalle oligarchie dominanti, ovverosia l’idea che l’obiettivo della politica commerciale globale debba essere quello di incrementare il più possibile il volume e l’intensità degli scambi commerciali internazionali, con l’obiettivo, tra le altre cose, di aumentare le esportazioni, ridurre il costo delle importazioni e favorire l’integrazione delle filiere produttive dei singoli paesi. Eppure è ormai sempre più evidente che siamo di fronte a una strategia non solo completamente irrazionale dal punto di vista sociale ed economico ma anche anche completamente suicida dal punto di vista ambientale. Ciò che serve da una prospettiva (eco-)socialista è un ribaltamento radicale di questa logica, che ponga al primo posto la riduzione – non l’allargamento – del grado di apertura commerciale dei singoli paesi. Una nuova razionalità economica che punti all’ottenimento del massimo grado di autosufficienza economica nazionale possibile, secondo la filosofia esposta da Keynes nel suo noto saggio del 1933, “Autosufficienza nazionale”: «Io simpatizzo piuttosto con coloro che vorrebbero ridurre al minimo il groviglio economico tra le nazioni, che non con quelli che lo vorrebbero aumentare al massimo. Le idee, il sapere, la scienza, l’ospitalità, il viaggiare – queste sono le cose che per loro natura dovrebbero essere internazionali. Ma lasciate che le merci siano fatte in casa ogni qualvolta ciò è ragionevolmente e praticamente possibile, e, soprattutto, che la finanza sia eminentemente nazionale». Ma il “geopoliticismo” è pericoloso soprattutto perché porta inevitabilmente ad adottare una postura imperiale ed imperialista, in cui qualunque considerazione attinente alla sfera della distribuzione, del modello sociale, della sovranità, della democrazia viene sacrificata sull’altare della politica di potenza. Come nota giustamente Andrea Zhok, «le realizzazioni storiche di grandi unificazioni politiche di differenti nazioni su vaste estensioni geografiche hanno storicamente un nome ben preciso. Si chiamano imperi». Il caso europeo è paradigmatico. Non è un caso che gli appelli dell’establishment europeo a unificare l’Europa per “competere” con la Cina, con gli Stati Uniti e con le altre grandi potenze riecheggino le teorie dei primi teorici geopolitici tedeschi –
riprese poi da nazisti – secondo cui, per resistere alle pressioni esercitate dalle potenze esterne e per competere adeguatamente con esse sui mercati mondiali, l’Europa doveva fondersi in un’unica unità economica, sotto la “direzione” della Germania. Da socialista suggerisco dunque di lasciare questi deliri di onnipotenza agli altri e di concentrarci su ciò di cui c’è veramente bisogno nelle nostre società: democrazia, sovranità, giustizia sociale ed ecologica. Tutte cose che non hanno nulla a che fare con gli imperi e con cui anzi sono del tutto incompatibili. Infine, per quanto riguarda la Germania: la nostra dipendenza dalla filiera produttiva tedesca, se è questo che si intende con la domanda, è una conseguenza dell’adozione – e della sua istituzionalizzazione tramite la moneta unica – dello stesso modello di sviluppo estroverso della Germania. L’obiettivo, come detto, non dovrebbe essere quello di rompere tale dipendenza attraverso l’adozione di misure mercantilistiche più prettamente nazionali ma piuttosto di farlo attraverso l’adozione di un modello autocentrico che punti sulla domanda interna e riduca l’intensità degli scambi commerciali con l’estero a favore di una rilocalizzazione, per quanto possibile, della produzione. Ciò detto, il modo più facile per indebolire il mercantilismo tedesco nel breve è porre fine alla moneta unica, che rappresenta notoriamente una sovvenzione implicita alle esportazioni tedesche per mezzo della compressione artificiale del tasso di cambio tedesco.

7. Come analizza lo sviluppo della Cina? Considera questo paese una forma di transizione al socialismo e cosa ne pensa della loro idea della globalizzazione sintetizzata nel progetto BRI?
7. L’analisi del modello economico cinese è un altro di quei temi su cui – ahimè – mi trovo spesso in disaccordo con i marxisti. Tra costoro, infatti, sembra essere diffusa l’idea secondo cui la Cina sia da considerarsi a tutti gli effetti un’economia capitalistica se non addirittura «neoliberale» (vedi David Harvey), che non presenterebbe dunque alcuna alterità di fondo rispetto al paradigma economico occidentale. Mi pare una posizione francamente assurda. L’errore, a mio avviso, consiste nell’illusione di poter tracciare una linea netta tra capitalismo e socialismo – per cui tutti i paesi sarebbero da considerarsi al di qua di questa linea immaginaria finché non realizzano un improvviso salto quantico verso un modello “socialista” non meglio specificato –, mentre sarebbe più utile vedere capitalismo e socialismo come due poli di un continuum lungo il quale collocare le specifiche esperienze storiche dei diversi paesi. La domanda, dunque, non è se la Cina sia capitalista o socialista ma dove si situi lungo questo continuum e verso quale dei due poli si stia muovendo. Per rispondere a questa domanda, però, è necessario mettersi d’accordo su una definizione di massima dei due termini, cosa tutt’altro che semplice, il che spiega in parte perché vi siano opinioni così discordanti, soprattutto a sinistra, sulla natura del modello cinese: perché è difficile mettersi d’accordo su cosa sia effettivamente il capitalismo e dunque, per contro, il socialismo. Se dovessi dare una personale definizione dei due modelli, che dunque non ha alcuna pretesa di esaustività o scientificità, opterei per la seguente: per capitalismo “puro” si intende un sistema in cui vige la proprietà privata di tutti i mezzi di produzione e della totalità del capitale nazionale (inclusi gli apparati statali), in cui tutti i processi decisionali in materia economica sono affidati alla libera iniziativa privata e in cui ogni aspetto della vita economica e sociale è soggetto alle regole di mercato e alla logica del profitto e dell’accumulazione; per socialismo “puro” si intende un sistema in cui non esiste la proprietà privata, in cui vige la proprietà pubblica (collettiva) di tutti i mezzi di produzione e della totalità del capitale nazionale e in cui tutti i processi decisionali in materia economica sono affidati alla pianificazione statale e finalizzati unicamente all’appagamento dei bisogni individuali e collettivi della società. Ora, va da sé che nessuno dei due modelli è mai esistito (né può probabilmente esistere) in forma “pura”; qualunque sistema economico rappresenta un ibrido dei due modelli. La domanda, semmai, è se uno specifico regime economico si collochi al di qua o al di là di un immaginario punto di mezzo tra capitalismo e socialismo lungo il suddetto continuum. Per quanto riguarda la Cina, ritengo che si possa tranquillamente sostenere che sia un sistema più socialista che capitalista, per le seguenti ragioni: pur avendo progressivamente aperto alla proprietà privata (che oggi rappresenta addirittura il 70 per cento del capitale nazionale secondo le stime di Piketty), (1) i terreni e le risorse naturali cinesi sono di proprietà dello Stato; (2) lo Stato detiene la maggioranza della proprietà (circa il 55 per cento) delle imprese cinesi e dunque dei mezzi di produzione; (3) i principali settori strategici (petrolio, telecomunicazioni, armi ecc.) sono in mano a un centinaio di mega-aziende statali che non vengono gestite secondo criteri di profittabilità ma di interesse nazionale; (4) la vita economica del paese è largamente affidata alla pianificazione statale, soprattutto grazie alla presenza di un massiccio settore pubblico – che dunque permette allo Stato di determinare direttamente una larga parte delle politiche in materia di investimento, produzione, occupazione ecc. – ma anche attraverso una forte regolamentazione del settore privato, nonché per mezzo di politiche di controllo dei prezzi, sovvenzioni pubbliche, trasferimenti forzati di tecnologia ecc.; (5) il settore finanziario e del credito è perlopiù in mano allo Stato cinese (o comunque soggetto a forte regolamentazione da parte dello stesso); (6) i movimenti di capitale (sia in entrata che in uscita) sono soggetti a controlli ferrei. Tutto ciò mi fa concludere che il modo di produzione capitalistico non sia dominante in Cina. Come riassume la questione il succitato ex ambasciatore Bradanini: «In Cina il primato del potere politico su quello economico rimane indiscusso. […] I capisaldi del socialismo con caratteristiche cinesi sono costituti dal dogma della sovranità nazionale, un ferreo controllo della società, la forte presenza dello Stato in economia, il controllo della finanza, delle grandi aziende/corporazioni e dei settori fondamentali del paese (proprietà e iniziativa private, giudicate utile a generare ricchezza in questo frangente storico, sono de facto attenuate e attentamente monitorate) e la proprietà pubblica della terra (sebbene talvolta il suo possesso sia gestito con metodi capitalisti)». Scusate se è poco. Francamente trovo incredibile che chi si propone come obiettivo il superamento del modello capitalistico – o quantomeno della sua variante neoliberale, ancora dominante in Occidente – non comprenda lo straordinario contributo offerto dalla Cina a questa battaglia, in termini simbolici ancor prima che pratici: il successo economico della Cina – soprattutto se paragonato ai risultati catastrofici di quei paesi in via di sviluppo che negli ultimi decenni hanno seguito le prescrizioni neoliberali – è la dimostrazione non solo che un’alternativa al modello capitalistico dominante (se non al capitalismo tout court) è possibile, ma che la pianificazione (il che, come mostra l’esempio cinese, non è incompatibile con l’esistenza di un settore imprenditoriale privato) rappresenta per molti versi un’alternativa superiore all’economia di mercato. L’altra lezione che ci arriva dalla Cina, infatti, è che le tecnologie odierne (Big Data ecc.) permettono di ovviare a molti dei problemi che hanno contraddistinto i tentativi fallimentari delle precedenti esperienze socialiste di coordinare efficacemente l’attività economica nazionale. Come ha scritto di recente nientedimeno che il Financial Times: «Molti economisti cinesi ritengono che i microdati in tempo reale, ad esempio sui flussi di valuta, di investimento e di credito, consentiranno di guidare i mercati e contenere in modo preciso e rapido i rischi finanziari come le bolle immobiliari o azionarie. Questo consentirebbe un’allocazione più intelligente delle risorse rispetto ai meccanismi di prezzo basati sul mercato». In un’epoca in cui si fa un gran parlare di transizione ecologica ovverosia della trasformazione radicale dei nostri modelli di produzione e di consumo per far fronte alla crisi ambientale – il che, mi pare evidente, presupporrebbe un livello di pianificazione economica pari almeno a quella sperimentata in Occidente solo in tempo di guerra – non vedo come non si possa non riconoscere alla Cina di aver dato legittimità a questi strumenti, considerati tabù fino a poco tempo fa nel dibattitto pubblico occidentale. Semmai la domanda cruciale – a cui ovviamente non possiamo rispondere in questa sede – è se questo livello di pianificazione sia compatibile con l’alternanza di governo tipica dei regimi liberal-democratici. Infine, per quanto riguarda il modello di globalizzazione alternativa promosso dalla Cina: ciò che mi interessa sottolineare in questa sede non sono i meriti o i demeriti del modello in sé, quanto l’importanza in quanto tale dell’esistenza – per la prima volta in quarant’anni – di un’alternativa a livello globale. L’emergere di un ordine multipolare rappresenta, a mio avviso, un’occasione straordinaria per quei paesi che vogliano conquistare una maggiore autonomia in campo economico e geopolitico proprio perché certifica la fine di quell’iper-impero mondiale che era in grado di imporre – con la forza o con altri mezzi – il proprio volere a tutto il pianeta.

8. Ritiene la variante del populismo di sinistra il modo di condurre la lotta di classe in questa congiuntura storica come Formenti? Come giudica il programma economico di queste formazioni politiche sparse per l’Europa?
8. Mi trovo perfettamente d’accordo con con l’analisi del “momento populista” di Formenti, secondo cui oggi in Occidente non esiste un soggetto o una classe specifica su cui poter fare affidamento per portare avanti una battaglia socialista ma che qualunque progetto trasformativo richiede la capacità di creare «un movimento politico capace di aggregare un blocco sociale che accorpi diverse rivendicazioni (anche se parzialmente in competizione reciproca), che risultino incompatibili con il sistema capitalista nelle sue forme attuali», cioè di «costruire un popolo, […] un’ampia alleanza di soggetti sociali che gli consenta di conquistare il governo e lanciare un programma di riforme radicali». Questa alleanza deve ovviamente includere i lavoratori ma anche le classi medie impoverite e/o minacciate dalla globalizzazione (per esempio, i piccoli-medi imprenditori); deve inoltre saper fare leva su tutte quelle faglie e quei conflitti che sono esterni al mondo della produzione: crisi ecologiche, crisi della riproduzione, conflitti generazionali, di genere, etnici, religiosi ecc. In breve, «costruire l’unità popolare significa organizzare il potere della plebe nel momento storico in cui i vecchi strumenti del movimento operaio non funzionano più». Purtroppo, per quanto riguarda le formazioni politiche “socialiste” sparse per l’Europa, la situazione è abbastanza sconfortante. Mi sento di condividere ogni virgola di ciò che ha scritto qualche tempo fa Wolfgang Streeck: «La ragione principale del fallimento delle sinistre è l’assenza pressoché totale di una realistica strategia anti-capitalistica, o anche solo anti-neoliberale, relativa all’UE. A sinistra non ci si chiede nemmeno se l’UE possa veramente essere un veicolo per una strategia anti-capitalistica. Piuttosto, continua a prevalere a sinistra un’accettazione ingenua o opportunistica di quell’“europeismo” buonista così popolare tra i giovani e che viene abilmente sfruttato dai partiti di centro e dai tecnocrati europei per legittimare il regime neoliberista. A sinistra non si fa menzione di come la costituzione economica dell’Unione europea renda impossibile qualunque programma anti-capitalistico o anche solo pro-labour, in virtù del liberismo incarnato nei trattati (le “quattro libertà”), della dittatura di fatto della Corte europea di giustizia e dell’austerità imposta dall’euro. Qualsiasi discussione critica sulla principale politica sociale dell’UE – la libera circolazione del lavoro tra paesi economicamente molto diversi tra loro – viene rigorosamente evitata, e anzi viene sostituita da una vaga simpatia per l’idea delle frontiere aperte, anche tra l’UE e il mondo esterno. […] La sinistra tende a relegare le questioni politiche a un livello di “democrazia europea” che esiste solo nella loro fantasia e che non esisterà per molto tempo a venire. Una sinistra radicale degna di questo nome capirebbe che il migliore contributo che può dare all’“Europa” consiste nel prendere atto che le “soluzioni europee” non possono sostituire la politica a livello nazionale, per il semplice fatto che quelle soluzioni non esistono. E si adopererebbe per difendere l’unica democrazia realmente esistente, cioè la democrazia nazionale, contro il suo esautoramento in un nome di una democrazia sovranazionale “cosmopolitica”». La morale di ciò che dice Streeck è che oggi non basta avere un buon programma economico. Lo dimostra la sconfitta di Corbyn. Al leader laburista e ai suoi va senz’altro riconosciuto il merito di aver abbandonato la “terza via” social-liberista in materia di politica economica e di aver messo in campo un programma economico piuttosto avanzato (per quanto viziato da alcuni errori macroeconomici di fondo ma sorvoliamo) basato sulla rinazionalizzazione di diversi settori, sul rilancio del welfare, sulla redistribuzione della proprietà azionaria delle grandi imprese ai lavoratori, su un massiccio piano di investimenti verdi ecc. Avendo però il Labour sbagliato completamente la posizione sulla Brexit – per le ragioni spiegate da Streeck – tutto questo lavoro si è rivelato inutile.

9. Ritiene l’opera di Karl Marx ancora utile nell’analizzare il capitalismo e in che rapporto è con i lavori di questo pensatore?
9. Se oggi siamo in grado di analizzare il capitalismo lo dobbiamo in buona parte a Marx e alla vastissima tradizione teorica ispirata al suo pensiero, dunque non ha neanche senso chiedersi se ciò che ci permette di pensare una cosa sia ancora utile all’analisi della suddetta. La domanda semmai è quali elementi del pensiero marxiano originario – per molto versi poi estremizzati e iperbolizzati dalla tradizione marxista – siano ormai da archiviare in quanto anacronistici, incompleti o semplicemente errati e dunque non più utili alla trasformazione rivoluzionaria dell’esistente o addirittura funzionali alla sua conservazione. In questo senso, mi riconosco perfettamente nella tesi avanzata da Carlo Formenti e Onofrio Romano nel loro recente volume Tagliare i rami secchi. Catalogo dei dogmi del marxismo da archiviare, in cui gli autori individuano una serie di elementi critici – da archiviare, appunto – del pensiero marxiano. Tra questi: la visione progressista, positivista e determinista della storia che individua nel progresso industriale e tecnologico – e più in generale nella diffusione del capitalismo su scala globale – un fattore di civilizzazione che porta in sé i germi della rivoluzione; il riduzionismo economicista che focalizza tutta l’attenzione sulle dinamiche di classe, ignorando (o svalutando) tutta una serie di elementi culturali altrettanto importanti nell’esistenza degli individui e nella determinazione dei processi storici (e della stessa lotta di classe!), a partire dall’identità collettiva (costumi, tradizioni, cultura ecc.) delle varie comunità territoriali e nazionali; la mancanza di una vera teoria politica “regolativa”, a cui come detto più su ha ovviato – per fortuna – l’impianto teorico keynesiano; l’idea che vi sia un soggetto privilegiato portatore di una genuina coscienza rivoluzionaria; la posizione ambigua nei confronti dello Stato e una concezione banale e antistorica dell’internazionalismo («il proletariato non ha patria») – a onor del vero successivamente problematizzata dallo stesso Marx ma soprattutto da Engels e Lenin – che non ha alcun senso in una fase storica come quella attuale (ma lo stesso, a ben vedere, era vero anche al tempo di Marx) in cui il rafforzamento della sovranità nazionale – e la riconquista della stessa per coloro che l’hanno persa del tutto, come i paesi dell’eurozona – è la condicio sine qua non per l’esercizio della democrazia e per resistere all’illimitata estensione geografica del dominio capitalistico (il che ovviamente non è in contraddizione con un reale inter-nazionalismo inteso come solidarietà e collaborazione tra Stati sovrani). Bisogna, insomma, archiviare proprio quegli elementi a cui – non a caso – si rifà ciò che rimane della moribonda sinistra occidentale, che, come scrive Formenti, lascia marcire il cadavere del socialismo mentre ne venera le sue inutili reliquie1


1 Google-ren itzulpena, cum mica salis:

Thomas Fazi es un periodista, ensayista y traductor italiano, uno de los comunicadores MMT más importantes de nuestro país. En los últimos años ha publicado dos libros importantes: “La batalla contra Europa” y “Soberanía o barbarie”.
En la red puede encontrar muchos de sus artículos publicados para Senso Comune y Sbilanciamoci o recopilados en la famosa plataforma Sinistra en la red. Tiene su propio sitio web.
1. Usted es uno de los mejores expertos en MMT en Italia. Me gustaría saber qué vínculos tiene esta teoría económica con el marxismo. ¿Considera que es la clave para revivir la economía italiana?
1. En primer lugar, quiero aclarar que yo, más que un experto, me considero un simple comunicador de la MMT que ha tenido la suerte de conocer y trabajar en estrecha colaboración con uno de los fundadores de la teoría en cuestión, Bill Mitchell: es un verdadero experto, y por lo tanto beber directamente de la fuente del conocimiento, por así decirlo. Sin esta premisa necesaria podemos continuar. Ahora, a primera vista, los vínculos entre MMT y la teoría marxista pueden parecer bastante débiles. Esta última se ocupa principalmente de las relaciones internas en el mundo de la producción, mientras que la MMT se ocupa principalmente de las relaciones entre la esfera de la producción y la de las políticas económicas y, en particular, las políticas presupuestarias. En este sentido, la MMT tiene una relación mucho más estrecha con la teoría keynesiana y especialmente postkeynesiana, de la cual representa una evolución en algunos aspectos. Si analizamos la cuestión más profundamente, sin embargo, surgen varios puntos de contacto con la teoría marxista. La MMT, de hecho, muestra cómo las relaciones internas de poder en el mundo de la producción, es decir, las que existen entre el capital y el trabajo, son una consecuencia directa de las políticas económicas, en la medida en que son las que determinan, entre otras cosas , la tasa de empleo y, por lo tanto, el poder de negociación de las clases trabajadoras. El análisis MMT es, por lo tanto, implícitamente un análisis de clase (pero de alguna manera se podría decir lo mismo, por las mismas razones, de la teoría (post) keynesiana, independientemente de los usos y abusos que se hicieron en el curso de la historia). La misma propuesta de Garantía de Empleo apoyada por muchos teóricos de MMT, en la cual el Estado se encargaría de ofrecer trabajo remunerado a quien lo desee, aunque formalmente dirigida a controlar la inflación, surge de la conciencia del desequilibrio estructural que existe entre trabajadores y capitalistas: este último puede darse el lujo de no contratar a un trabajador, pero un trabajador (un proletario, se habría dicho alguna vez), en ausencia de intervenciones públicas “correctivas”, se ve obligado a vender el suyo, mano de obra en el mercado, en las condiciones dictadas por ese último. Eliminar este poder del chantaje de los capitalistas, garantizando a los trabajadores un trabajo en el sector público, aumentaría en gran medida el poder de negociación de los trabajadores. Dicho esto, adjuntar una orientación precisa a MMT estaría mal, en la medida en que es una teoría descriptiva y no prescriptiva. Diría que muestra cómo funcionan realmente los sistemas monetarios modernos y cuáles son las opciones reales disponibles de los gobiernos que tienen soberanía monetaria (y, por el contrario, cuáles son los límites de los gobiernos que no la tienen). Podríamos decir que, así como Marx levantó el velo ideológico neoclásico para revelar la realidad de las relaciones capitalistas de propiedad y producción, MMT levanta el velo ideológico neoliberal para revelar la realidad de los sistemas monetarios modernos (y las restricciones autoimpuestas utilizadas para enmascarar esta realidad y cómo estos influyen en las propiedades y la producción antes mencionadas, es decir, las relaciones de clase: sólo piense en la importancia de la ideología de la escasez de dinero para hacer que las masas acepten las políticas de austeridad). Esta comprensión se puede poner al servicio de los objetivos más dispares, tanto de naturaleza liberal (como suele ser el caso: ver a los gobiernos que no les importa el déficit público cuando se trata de dar dinero a los bancos o reducir los impuestos a los ricos), así como de origen socialista. Sin embargo, no hay duda, en lo que a mí respecta, de que la implementación de un programa socialista (o incluso moderadamente socialdemócrata) no puede separarse de la comprensión de los sistemas monetarios modernos, y la importancia del control de la moneda, que ofrece la MMT. En resumen, si me permite una broma (pero no demasiado), es impensable tomar posesión de los medios de producción sin también tomar posesión de los medios de producción de la moneda. En cuanto a Italia, la principal ventaja de la MMT es mostrar cómo la recuperación de la soberanía monetaria es una condición absolutamente esencial para revivir la economía, lo que requeriría un estímulo fiscal absolutamente inalcanzable sin tener control del apalancamiento monetario, pero sobre todo, desde una perspectiva progresiva, para relanzar el empleo y el bienestar. Y poder volver a considerarnos una democracia, al menos desde un punto de vista formal.

2. Usted se opone notoriamente a la UE. Me gustaría saber qué opina de las propuestas de reforma de la UE desde la izquierda o de proyectos alternativos como el ALBA euromediterráneo del profesor Vasapollo.
2. Los considero, en el mejor de los casos, extremadamente ingenuos. En cuanto a la Unión Europea y, en particular, la unión monetaria, creo que ahora está claro para todos que estamos tratando con instituciones que no pueden ser reformadas en un sentido progresivo (lo que no excluye en absoluto su reforma peyorativa, sólo piense a la reforma propuesta del MEDE) ni se pueden democratizar. Y la razón subyacente radica en la naturaleza de clase del proyecto europeo. La constitución económica y política de la Unión Europea está estructurada precisamente para producir los resultados que estamos viendo: la erosión de la soberanía popular, la transferencia de riqueza de las clases media baja a alta, el debilitamiento del trabajo y, en general, desmantelar los logros democráticos y económico-sociales que habían sido alcanzados previamente por las clases subordinadas, y evitar precisamente el tipo de reformas a las que aspiran los integracionistas / federalistas de izquierda. En este sentido, no se entiende por qué las élites nacionales y europeas deberían aceptar reformas que inevitablemente reducirían su poder (en la medida en que cualquier progreso en el empleo y / o el frente democrático aumentaría el poder de negociación de las clases subordinadas ). Luciano Gallino también había llegado a la misma conclusión poco antes de su muerte: “No será posible una modificación realista del euro”, escribió, ya que fue diseñado “como una camisa de fuerza dirigida a prevenir cualquier política social progresista, y las camisas de fuerza, dada la función para la cual fueron creados, no aceptan cambios “democráticos” ». A esto se podría argumentar que, en la medida en que estas reformas son actualmente inviables a la luz de los equilibrios políticos actuales dentro de la Unión Europea, una modificación de esos equilibrios podría hacer factibles las hipótesis de reforma antes mencionadas. Sin embargo, desde un punto de vista técnico-institucional, este camino también está excluido: sólo piense que una reforma de los tratados requeriría la unanimidad de todos los países miembros en el Consejo Europeo, lo que presupondría el ascenso simultáneo al poder de gobiernos sinceramente progresistas (y que comparten las mismas perspectivas de reforma) en todos los países de la UE. No tiene que ser particularmente pesimista para concluir que esto nunca sucederá. Pero el punto real es otro: todas estas propuestas de reforma no solo son inalcanzables sino también, y sobre todo, desfavorables. Incluso si hubiera un consenso entre las clases dominantes europeas para la creación de una arquitectura europea más propiamente política y democrática desde el punto de vista formal (primacía del Parlamento Europeo, etc.), sería, en el mejor de los casos, una “democracia” de muy baja intensidad, y por lo tanto intrínsecamente inestable, dada la ausencia de demostraciones europeas que puedan infundir legitimidad en estas instituciones. Y esto sin considerar que los riesgos asociados con la captura del proceso democrático por las oligarquías económicas (mediante actividades de cabildeo, etc.) se acentúan fuertemente a nivel supranacional. Es por esta razón que, en general, la transferencia de soberanía a los centros de toma de decisiones políticas internacionales / supranacionales contribuye al debilitamiento del control popular. En el análisis final, solo a través del retorno de los instrumentos de política económica a los Estados individuales será posible recuperar espacios de viabilidad democrática, promover el progreso social y así sentar las bases para una colaboración real entre los países europeos. Muchas de las objeciones antes mencionadas, de hecho, también podrían hacerse a las diversas propuestas de la unión euromediterránea. Si estamos en el contexto de una colaboración entre estados soberanos, especialmente desde un punto de vista monetario, estoy de acuerdo, por supuesto; pero si hablamos de compartir dinero u otros instrumentos de política económica, aunque entre países económicamente menos heterogéneos y culturalmente más similares, entonces mi oposición es clara, ya que muchos de los problemas que vemos hoy en la eurozona volverían a surgir, con otro país – tal vez Italia en sí? – En el papel de Alemania. El punto que la izquierda debería poner de cabeza es que las uniones monetarias no funcionan. Punto.

3. ¿Cómo respondes a las críticas que vienen del mundo marxista a MMT? Estoy pensando, por ejemplo, en Michael Roberts, quien lo define como una forma de chartalismo postkeynesiano.
3. Los considero bastante ridículos en la medida en que las principales críticas hechas por los marxistas a MMT son esencialmente tres: 1) MMT no tendría una perspectiva de clase; 2) MMT, ya que afirma que los impuestos no financian el gasto público, estaría en contra de gravar a los ricos; 3) MMT, como el keynesianismo, representaría una solución destinada a reformar el capitalismo, no a romperlo. Con respecto al primer punto, ya he respondido: en todo caso, son los marxistas quienes no entienden cuánto afecta la arquitectura monetaria y fiscal de un país a la lucha de clases. En cuanto al segundo punto: parto del hecho de que, como ya se mencionó, no hay recetas “oficiales” de la MMT con respecto a impuestos u otras políticas, sino solo las opiniones personales (y a menudo conflictivas) de los economistas atribuibles a La escuela MMT, a partir del postulado de que los impuestos no financian el gasto público, un hecho objetivo, la conclusión de que, por lo tanto, no habría necesidad de imponer riesgos, es una obviedad. Lo que MMT muestra es que un estado que tiene soberanía monetaria no depende de los ricos para financiar cualquier programa de gasto que elija seguir. Esto no significa que no haya otras razones válidas para gravar a los ricos: en primer lugar, para reducir su poder económico y, por lo tanto, político dentro de la sociedad, como Mitchell y yo hemos argumentado en varias ocasiones. Lo mismo se aplica a los impuestos corporativos: el objetivo no debe ser ganar dinero en efectivo, sino más bien desalentar o fomentar comportamientos considerados perjudiciales o virtuosos. Finalmente, con respecto al último punto: siempre he considerado el debate sobre el reformismo versus la revolución (a menudo rechazado en términos de una supuesta dicotomía keynesiana-socialista) bastante ridículo. Independientemente de los objetivos a largo plazo que uno elija establecer, es evidente que, en la coyuntura dada, una política “keynesiana” – en forma de una reconquista de las palancas de política monetaria y fiscal para impulsar el empleo – representa un paso obligatorio hacia una socialización más radical de la economía; al mismo tiempo, eliminar una gran parte de la inversión y la producción (y, por lo tanto, del empleo) de la lógica del beneficio probablemente resultará inevitable en la medida en que las condiciones para un “compromiso de clase” en el estilo keynesiano no parezcan existir hoy y por lo tanto, es razonable esperar la falta de disponibilidad de capital privado para cualquier medida que perjudique su control sobre la empresa. De cualquier manera, las ideas de MMT son absolutamente fundamentales. Una nota final de “color”: el aspecto más grotesco de muchas de las críticas marxistas es que a menudo se basan en supuestos macroeconómicos completamente ortodoxos, como la idea de que “imprimir dinero causaría hiperinflación” o “devaluar el tipo de cambio”, nociones que incluso los economistas convencionales ya no creen. En resumen, los autodenominados jacobinos más realistas que el rey.

4. Por lo que he podido leer, en sus obras noto cierta cercanía al pensamiento de Keynes. Me vienen a la mente dos ejemplos de la relación entre este brillante economista y la tradición marxista. Quienes aceptan el desafío de Keynes a la teoría económica, como Paul Baran y Sweezy, quienes escribirán uno de los textos simbólicos del capital monopolista del 68. Ensayo sobre la estructura económica y social estadounidense “y aquellos que inmediatamente hicieron críticas interesantes como Paul Mattick pero también, por ejemplo, Kalecki, quien demostró la imposibilidad del pleno empleo en el capitalismo. ¿Cómo manejas estas diferentes interpretaciones marxistas de Keynes?
4. Me parecen interesantes, aunque muchos de ellos están empañados por errores macroeconómicos. Pensemos, por ejemplo, en todo el debate marxista de los años setenta (cuyas secuelas continúan hasta nuestros días) sobre la supuesta “crisis fiscal estatal”, un análisis empañado por la idea de que el dinero es un recurso escaso. En cambio, me encuentro completamente de acuerdo con el análisis de Kalecki de los límites políticos del pleno empleo en un contexto capitalista. Sin embargo, el error, en mi opinión, y me refiero a lo que estaba diciendo hace un momento, es interpretar este debate como una especie de “desafío” entre el marxismo (y la perspectiva socialista en general) y el keynesianismo. Como se mencionó anteriormente, no veo ningún conflicto entre los dos. Muy por el contrario. El error básico, común a los marxistas, radica en considerar al keynesianismo como una ideología bien definida, básicamente dirigida a “salvar al capitalismo de sí mismo” en lugar de superarlo. Por el contrario, interpreto el sistema (post) keynesiano de la misma manera que interpreto el sistema, de alguna manera similar, de la MMT: como una lente a través de la cual entendemos las herramientas disponibles para que un Estado logre ciertos objetivos políticos y económicos. También muy diferente el uno del otro. Entre estos objetivos también incluyo el socialismo democrático (en sus diversas declinaciones, más o menos radicales), no veo cómo podemos llegar allí sin recurrir a las herramientas del (post) keynesianismo y la MMT, ya que la teoría marxista es notoriamente pobre de prescripciones “técnicas” sobre las estructuras económicas, políticas e institucionales, y más generalmente sobre la forma-Estado, para ser equipadas para alcanzar el objetivo de la democratización de la economía y la socialización progresiva de los medios de producción.

5. En sus ideas para salir de la actual crisis económica, ¿qué espacio tiene el pensamiento de Minsky y su defensa de un capitalismo intervencionista?
5. Soy un gran admirador del pensamiento de Minsky. En mi opinión, expresa muy bien la idea de que los instrumentos de política económica (post) keynesianos pueden ponerse al servicio de objetivos mucho más radicales que los que se han hecho en el llamado período keynesiano de treinta años. Minsky fue uno de los pocos que entendió que, ante la evidente imposibilidad de encontrar una solución consensuada al conflicto capital-trabajo que surgió en los años setenta, la crisis del llamado “compromiso de clase keynesiana” solo podía resolverse a favor de una u otra parte: a favor del capital (mediante una reducción de los salarios y, en general, por el poder de los sindicatos, como era entonces) o en favor de los trabajadores, a través de esa gradual “socialización de las inversiones “- con el objetivo de eliminar una gran parte de la inversión de la lógica del beneficio, dentro de una regulación general de la inversión privada – que el propio Keynes indicó como la única solución a la tendencia al estancamiento natural del capitalismo desarrollado y que Minsky consideró como una una especie de “camino lento al socialismo”. Desafortunadamente, los izquierdistas occidentales no tenían la conciencia, la fuerza o el coraje para seguir este camino, por lo que terminaron manejando la crisis de capital en nombre del capital. Conocemos las consecuencias.

6. En “Soberanía o barbarie” se busca resaltar el posible papel central del estado en la economía, así como defender adecuadamente la necesidad de romper la jaula europea.
¿Cómo puede actuar el estado en un mundo económico que parece revivir la competencia entre macro-áreas y romper la relación de dependencia con el centro del polo imperialista europeo producido por el mercantilismo alemán?
6. Creo que este enfoque, que podríamos definir como “geopolítico”, es falaz y peligroso al mismo tiempo. Fallaz porque considero falsa, y totalmente instrumental para la ideología globalista dominante, la idea de que hoy nos encontraríamos en una fase estructuralmente sin precedentes de la globalización capitalista, que incluso nos obligaría a repensar la forma de estado como la conocemos hasta ahora. La competencia entre macro-áreas siempre ha existido: China y Occidente, por ejemplo, las guerras comerciales ya estaban teniendo lugar en el siglo XVIII. Así como siempre han existido países dominantes desde el punto de vista económico y comercial. En el pasado, esto no ha impedido que prosperen estados de diferentes tamaños. Por esta razón, considero la idea, promovida constantemente por la corriente principal y respaldada por una gran parte de la izquierda autodenominada (incluidos varios marxistas), de que el contexto global actual nos obligaría a avanzar hacia formas más amplias de agregación política, tal vez de naturaleza supranacional: poder “flotar en el mar de la globalización”, usa un significado muy común. Si este fuera el caso, no sería posible explicar por qué, en promedio, aquellos países que pertenecen al ejemplo más avanzado de integración supranacional que existe en el mundo hoy en día, la Unión Europea y en particular la unión monetaria, y que, por lo tanto, según la narrativa dominante deberían ser los niveles de crecimiento, empleo y crecimiento de la competencia internacional más altos, y sin embargo han sido más bajos que el promedio de los países desarrollados en la última década, incluidos los países europeos que no se han unido al euro y aún tienen su propia moneda (Islandia, Noruega, Suecia , Suiza, etc.). Y la razón es fácil de decir: si realmente quiere competir con los nuevos gigantes de la economía mundial como China, un objetivo algo cuestionable en sí mismo, como explicaré, lo que importa no es tanto el “tamaño” de un país como su capacidad tener todas las palancas de la política económica (política monetaria, presupuestaria y cambiaria) para aumentar su competitividad, tanto en términos de oferta y calidad (a través de la política industrial) como de precio. En este sentido, la UE, con su obsesión con el rigor fiscal y sus obstáculos a la intervención pública, lejos de protegernos de las grandes potencias, nos expone a su misericordia. De hecho, no es casualidad que hoy en día todos los países europeos, incluida Italia, abran las puertas a las inversiones chinas, ya que no pueden realizar inversiones públicas debido a las absurdas restricciones presupuestarias europeas, mientras que no existe una política de inversión europea digno de ese nombre. Como Alberto Bradanini, embajador en Beijing entre 2013 y 2015 (por lo tanto, no es exactamente el típico “soberano”) dice: “Italia podrá beneficiarse de una interlocución con China si, después de recuperar su soberanía monetaria, podrá comenzar una política económica digna de ese nombre, reiniciando el tejido industrial que ha caído un 20 por ciento en la última década e invirtiendo masivamente en innovación e investigación. Sin esto, Italia está destinada a recolectar solo unas pocas migajas del diálogo con China “. En resumen, no solo un país como Italia podría “mantenerse al día” con las grandes potencias fuera del euro sino que, como dice Bradanini, solo podría hacerlo fuera del euro. Considero que el argumento, también querido por ciertos marxistas, es igualmente falaz, según el cual la difusión de las llamadas “cadenas de valor globales”, es decir, la dispersión internacional de la producción, presupondría inevitablemente un movimiento hacia formas cada vez más avanzadas de integración comercial (como la mercado europeo único) y monetario (como el euro) y que, por otro lado, las monedas nacionales, los tipos de cambio fluctuantes y, en general, cualquier obstáculo a la libre circulación de bienes y capitales se entenderían fundamentalmente incompatibles con “globalización” y con el comercio internacional (admitidos y no admitidos que estos son objetivos deseables en sí mismos). En realidad, los datos muestran que ni el comercio internacional ni la participación en las cadenas de valor mundiales requieren “mercados únicos”, y mucho menos monedas únicas. En efecto, está confirmado por todos los estudios principales sobre el tema, que no han encontrado ninguna correlación positiva entre la integración monetaria y el comercio internacional, ni ninguna evidencia de que las fluctuaciones del tipo de cambio y los “costos de transacción” relacionados representen un impedimento para el comercio y / o a la integración productiva. Como Costas Lapavitsas escribe: «El punto crucial a tener en cuenta es que las principales transformaciones de la economía mundial que hemos presenciado en las últimas cuatro décadas, incluido el desarrollo de nuevas tecnologías, la difusión de las cadenas de valor mundiales, el crecimiento de la economía mundial, el comercio y el auge de China no exigían condiciones similares a las del mercado único europeo. En todo caso, es precisamente la ideología del mercado único lo que representa un remanente de otra época “. Sin embargo, como mencioné al principio, considero que este tipo de argumento, que he llamado “geopolítico”, no solo es incorrecto sino también peligroso, así como totalmente incompatible con una perspectiva socialista. En primer lugar, porque aceptan, implícita o explícitamente, la lógica mercantilista y de libre comercio propugnada por las oligarquías dominantes, es decir, la idea de que el objetivo de la política comercial global debe ser aumentar el volumen y la intensidad del comercio internacional, tanto como sea posible, con el objetivo, entre otras cosas, de aumentar las exportaciones, reducir el costo de las importaciones y alentar la integración de las cadenas de producción de cada país. Sin embargo, ahora es cada vez más evidente que nos enfrentamos a una estrategia que no solo es completamente irracional desde un punto de vista social y económico, sino también completamente suicida desde un punto de vista ambiental. Lo que se necesita desde una perspectiva (eco) socialista es una inversión radical de esta lógica, que coloca primero la reducción, no la ampliación, del grado de apertura comercial de los países individuales. Una nueva racionalidad económica que apunta a obtener el máximo grado posible de autosuficiencia económica nacional, de acuerdo con la filosofía expuesta por Keynes en su conocido ensayo de 1933, “Autosuficiencia nacional”: «Prefiero simpatizar con aquellos que desean minimizar el enredo económico entre naciones, no con aquellos que desean aumentarlo al máximo. Ideas, conocimiento, ciencia, hospitalidad, viajes: estas son las cosas que por su naturaleza deberían ser internacionales. Pero que los bienes se hagan en casa siempre que esto sea razonable y prácticamente posible y, sobre todo, que las finanzas sean eminentemente nacionales “. Pero el “geopolitismo” es peligroso sobre todo porque inevitablemente lleva a adoptar una postura imperial e imperialista, en la cual cualquier consideración relacionada con la esfera de distribución, el modelo social, la soberanía, la democracia se sacrifica en el altar de la política de poder. Como Andrea Zhok señala correctamente, “los logros históricos de grandes unificaciones políticas de diferentes naciones en vastas áreas geográficas históricamente han tenido un nombre preciso. Se llaman imperios». El caso europeo es paradigmático.
No es casualidad que los llamamientos del establecimiento europeo para unificar Europa para “competir” con China, Estados Unidos y otras potencias importantes hagan eco de las teorías de los primeros teóricos geopolíticos alemanes: luego fue reanudado por los nazis, según los cuales, para resistir las presiones ejercidas por las potencias externas y competir adecuadamente con ellas en los mercados mundiales, Europa tuvo que fusionarse en una única unidad económica, bajo la “dirección” de Alemania. Como socialista, por lo tanto, sugiero dejar estos delirios de omnipotencia a otros y concentrarse en lo que realmente se necesita en nuestras sociedades: democracia, soberanía, justicia social y ecológica. Todas las cosas que no tienen nada que ver con imperios y con las cuales son completamente incompatibles. Finalmente, en lo que respecta a Alemania: nuestra dependencia de la cadena de producción alemana, si esto es lo que se entiende por demanda, es una consecuencia de la adopción, y su institucionalización a través de la moneda única, del mismo modelo extrovertido de desarrollo de Alemania . El objetivo, como se mencionó, no debería ser romper esta dependencia mediante la adopción de medidas mercantilistas más puramente nacionales, sino hacerlo mediante la adopción de un modelo egocéntrico que se centre en la demanda interna y reduzca la intensidad del comercio con países extranjeros a favor de una reubicación, en la medida de lo posible, de la producción. Dicho esto, la forma más fácil de debilitar el mercantilismo alemán a corto plazo es poner fin a la moneda única, que es notoriamente un subsidio implícito a las exportaciones alemanas mediante la compresión artificial del tipo de cambio alemán.

7. ¿Cómo analiza el desarrollo de China? ¿Considera que este país es una forma de transición al socialismo y qué opina de su idea de globalización resumida en el proyecto BIS?
7. El análisis del modelo económico chino es otra de esas cuestiones en las que, por desgracia, a menudo me encuentro en desacuerdo con los marxistas. De hecho, entre ellos, la idea de que China debe ser considerada en todos los aspectos como una economía capitalista si no “neoliberal” (ver David Harvey) parece estar extendida, por lo tanto, no presentaría ninguna alteridad fundamental con respecto al paradigma económico occidental. Me parece una posición francamente absurda. El error, en mi opinión, consiste en la ilusión de poder trazar una línea clara entre el capitalismo y el socialismo, por lo que todos los países serían considerados en este lado de esta línea imaginaria hasta que den un salto cuántico repentino hacia un modelo “socialista”. No se especifica mejor, aunque sería más útil ver el capitalismo y el socialismo como dos polos de un continuo en el que ubicar las experiencias históricas específicas de los diferentes países. La pregunta, por lo tanto, no es si China es capitalista o socialista, sino dónde está ubicada a lo largo de este continuo y hacia cuál de los dos polos se está moviendo. Para responder a esta pregunta, sin embargo, es necesario acordar una definición amplia de los dos términos, que es todo menos simple, lo que explica en parte por qué hay opiniones tan conflictivas, especialmente a la izquierda, sobre la naturaleza del modelo. Chino: porque es difícil ponerse de acuerdo sobre qué es realmente el capitalismo y, por lo tanto, el socialismo. Si tuviera que dar una definición personal de los dos modelos, que por lo tanto no tiene pretensión de exhaustividad o cientificidad, optaría por lo siguiente: capitalismo “puro” significa un sistema en el que existe la propiedad privada de todos los medios de producción y del todo del capital nacional (incluidos los aparatos estatales), en el que todos los procesos de toma de decisiones económicas se confían a la iniciativa privada libre y en el que cada aspecto de la vida económica y social está sujeto a las reglas del mercado y la lógica de la ganancia y la acumulación ; socialismo “puro” significa un sistema en el que no existe la propiedad privada, en el que la propiedad pública (colectiva) de todos los medios de producción y de todo el capital nacional está en vigor y en el que se confían todos los procesos de toma de decisiones económicas a la planificación estatal y dirigida únicamente a satisfacer las necesidades individuales y colectivas de la sociedad. Ahora, no hace falta decir que ninguno de los dos modelos existió (ni puede existir) en forma “pura”. Cualquier sistema económico representa un híbrido de los dos modelos. La pregunta, en todo caso, es si un régimen económico específico se coloca a cada lado de un punto medio imaginario entre el capitalismo y el socialismo a lo largo del continuo antes mencionado. En cuanto a China, creo que se puede argumentar con seguridad que es un sistema más socialista que capitalista, por las siguientes razones: a pesar de haberse abierto gradualmente a la propiedad privada (que hoy representa incluso el 70 por ciento del capital nacional según las estimaciones de Piketty), (1) la tierra y los recursos naturales chinos son propiedad del estado; (2) el estado posee la mayoría de la propiedad (aproximadamente el 55 por ciento) de las empresas chinas y, por lo tanto, de los medios de producción; (3) los principales sectores estratégicos (petróleo, telecomunicaciones, armas, etc.) están en manos de cien mega empresas estatales que no se gestionan según criterios de rentabilidad sino de interés nacional; (4) la vida económica del país se confía en gran medida a la planificación estatal, sobre todo gracias a la presencia de un sector público masivo, lo que permite al estado determinar directamente una gran parte de las políticas de inversión, producción, empleo, etc. – pero también a través de una fuerte regulación del sector privado, así como a través de políticas de control de precios, subsidios públicos, transferencias forzadas de tecnología, etc. (5) el sector financiero y crediticio está principalmente en manos del Estado chino (o en cualquier caso sujeto a una fuerte regulación por parte del mismo); (6) los movimientos de capital (tanto entrantes como salientes) están sujetos a controles estrictos. Todo esto me hace concluir que el modo de producción capitalista no es dominante en China. Como el mencionado ex embajador Bradanini resume el tema: «En China, la primacía del poder político sobre el poder económico sigue siendo indiscutible. […] Las piedras angulares del socialismo con características chinas están constituidas por el dogma de la soberanía nacional, un control férreo de la sociedad, la fuerte presencia del estado en la economía, el control de las finanzas, las grandes empresas / corporaciones y los sectores fundamentales del país (propiedad y las iniciativas privadas, consideradas útiles para generar riqueza en esta situación histórica, se atenúan de facto y se supervisan cuidadosamente) y la propiedad pública de la tierra (aunque su posesión a veces se gestiona con métodos capitalistas) “. Perdón si es poco. Francamente, me parece increíble que aquellos que pretenden superar el modelo capitalista, o al menos su variante neoliberal, aún dominante en Occidente, no entiendan la contribución extraordinaria que ofrece China a esta batalla, en términos simbólicos, incluso antes de lo práctico: el éxito económico China, especialmente en comparación con los resultados catastróficos de los países en desarrollo que han seguido las prescripciones neoliberales en las últimas décadas, es la demostración no solo de que es posible una alternativa al modelo capitalista dominante (si no el capitalismo tout court), pero esa planificación (que, como muestra el ejemplo chino, no es incompatible con la existencia de un sector empresarial privado) representa en muchos sentidos una alternativa superior a la economía de mercado. La otra lección que nos llega de China, de hecho, es que las tecnologías actuales (Big Data, etc.) permiten superar muchos de los problemas que han caracterizado los intentos fallidos de experiencias socialistas anteriores para coordinar efectivamente la actividad económica nacional. Como escribió recientemente, sin embargo, el Financial Times: “Muchos economistas chinos creen que los microdatos en tiempo real, como los de divisas, inversiones y flujos de crédito, ayudarán a guiar a los mercados y contendrán de manera precisa y rápida los riesgos financieros, como las burbujas inmobiliarias o de capital. Esto permitiría una asignación de recursos más inteligente que los mecanismos de fijación de precios basados ​​en el mercado “. En un momento en el que se habla mucho sobre la transición ecológica o la transformación radical de nuestros modelos de producción y consumo para enfrentar la crisis ambiental, lo cual, me parece claro, presupondría un nivel de planificación económica igual al menos a  lo experimentado en Occidente solo en tiempos de guerra: no veo cómo no se puede dejar de reconocer a China por haber dado legitimidad a estos instrumentos, considerados tabú hasta hace poco en el debate público occidental. En todo caso, la pregunta crucial, que por supuesto no podemos responder aquí, es si este nivel de planificación es compatible con la alternancia del gobierno típico de los regímenes democráticos liberales. Finalmente, con respecto al modelo de globalización alternativo promovido por China: lo que me interesa aquí no son los méritos o deméritos del modelo en sí, sino la importancia como tal de la existencia, por primera vez en cuarentena años – de una alternativa global. El surgimiento de un orden multipolar representa, en mi opinión, una oportunidad extraordinaria para aquellos países que desean obtener una mayor autonomía en el campo económico y geopolítico precisamente porque certifica el fin de ese hiperimperio mundial que pudo imponer: por la fuerza o por otros medios, su propia voluntad para todo el planeta.

8. ¿Considera que la variante del populismo de izquierda es la forma de conducir la lucha de clases en esta situación histórica como Formenti? ¿Cómo juzga el programa económico de estas formaciones políticas dispersas por toda Europa?
8. Estoy totalmente de acuerdo con el análisis de Formenti del “momento populista”, según el cual hoy en Occidente no hay un tema o clase específica en la que pueda confiar para llevar a cabo una batalla socialista, sino que cualquier proyecto transformador requiere la capacidad de crear “un movimiento político capaz de agregar un bloque social que reúna diferentes demandas (incluso parcialmente en competencia mutua), que son incompatibles con el sistema capitalista en sus formas actuales”, es decir, “construir un pueblo, [… ] una amplia alianza de sujetos sociales que le permite conquistar el gobierno y lanzar un programa de reformas radicales ». Obviamente, esta alianza debe incluir a los trabajadores, pero también a las clases medias empobrecidas y / o amenazadas por la globalización (por ejemplo, pequeños y medianos empresarios). También debe ser capaz de aprovechar todas esas fallas y conflictos externos al mundo de la producción: crisis ecológicas, crisis reproductivas, conflictos generacionales, de género, étnicos, religiosos, etc. En resumen, “construir la unidad popular significa organizar el poder de la plebe en el momento histórico en que las viejas herramientas del movimiento obrero ya no funcionan”. Lamentablemente, en lo que respecta a las formaciones políticas “socialistas” dispersas por toda Europa, la situación es bastante desalentadora. Me gustaría compartir cada coma de lo que Wolfgang Streeck escribió hace algún tiempo: «La razón principal del fracaso de los izquierdistas es la ausencia casi total de una estrategia realista anticapitalista, o incluso antineoliberal, relacionada con la UE. A la izquierda, nadie se pregunta si la UE puede ser realmente un vehículo para una estrategia anticapitalista. Más bien, una aceptación ingenua u oportunista de ese “proeuropeo” buenista, proeuropeo tan popular entre los jóvenes y que los partidos centrales y los tecnócratas europeos explotan hábilmente para legitimar el régimen neoliberal que sigue prevaleciendo en la izquierda. A la izquierda no se menciona cómo la constitución económica de la Unión Europea hace imposible cualquier programa anticapitalista o incluso pro-laboral, en virtud del liberalismo encarnado en los tratados (las “cuatro libertades”), la dictadura de facto de la Corte Justicia y austeridad europeas impuestas por el euro. Cualquier discusión crítica sobre la principal política social de la UE – la libre circulación de trabajadores entre países económicamente muy diferentes – se evita rigurosamente, y de hecho se reemplaza por una vaga simpatía por la idea de fronteras abiertas, incluso entre la UE y el mundo exterior. […] La izquierda tiende a relegar los problemas políticos a un nivel de “democracia europea” que existe solo en su imaginación y que no existirá por mucho tiempo. Una izquierda radical digna de este nombre entendería que la mejor contribución que puede hacer a “Europa” es tomar nota de que las “soluciones europeas” no pueden reemplazar la política a nivel nacional, simplemente porque esas soluciones no existen. Y se esforzaría por defender la única democracia verdaderamente existente, es decir, la democracia nacional, contra su derrota en nombre de una “democracia supranacional” cosmopolita “. La moraleja de lo que dice Streeck es que tener un buen programa económico no es suficiente hoy. Esto se demuestra con la derrota de Corbyn. El mérito de haber abandonado la “tercera vía” social-liberal en la política económica y de haber implementado un programa económico bastante avanzado (aunque estropeado por algunos errores macroeconómicos subyacentes) basado en la renacionalización de diferentes sectores, en la revitalización del bienestar, en la redistribución de la propiedad de las grandes empresas a los trabajadores, en un plan masivo de inversiones verdes, etc. Sin embargo, al tener al Laborismo completamente equivocado en la posición sobre Brexit, por las razones explicadas por Streeck, todo este trabajo resultó inútil.

9. ¿Considera que el trabajo de Karl Marx sigue siendo útil para analizar el capitalismo y cómo se relaciona con el trabajo de este pensador?
9. Si hoy somos capaces de analizar el capitalismo, se lo debemos a Marx y a la vasta tradición teórica inspirada en su pensamiento, por lo tanto, ni siquiera tiene sentido preguntar si lo que nos permite pensar que algo sigue siendo útil para el análisis anterior. La pregunta, en todo caso, es qué elementos del pensamiento marxista original, en muchos aspectos extremos e hiperbolizados por la tradición marxista, ahora deben archivarse como anacrónicos, incompletos o simplemente incorrectos y, por lo tanto, ya no son útiles para la transformación revolucionaria de lo existente o incluso funcional para su preservación. En este sentido, me reconozco perfectamente en la tesis adelantada por Carlo Formenti y Onofrio Romano en su reciente volumen Cortar ramas secas. Se archivará el catálogo de dogmas del marxismo, en el que los autores identifican una serie de elementos críticos, que de hecho se archivarán, del pensamiento marxista. Entre ellos: la visión progresista, positivista y determinista de la historia que identifica en el progreso industrial y tecnológico, y más en general en la difusión del capitalismo a escala global, un factor de civilización que lleva consigo las semillas de la revolución. El reduccionismo economista que enfoca toda la atención en la dinámica de clase, ignorando (o devaluando) toda una serie de elementos culturales igualmente importantes en la existencia de los individuos y en la determinación de los procesos históricos (¡y de la lucha de clases en sí!), comenzando por la identidad colectiva (costumbres, tradiciones, cultura, etc.) de las diversas comunidades territoriales y nacionales; la falta de una verdadera teoría política “reguladora” que, como se mencionó anteriormente, afortunadamente ha remediado el marco teórico keynesiano; la idea de que hay un sujeto privilegiado que lleva una genuina conciencia revolucionaria; la posición ambigua hacia el estado y una concepción banal y antihistórica del internacionalismo (“el proletariado no tiene patria”), para ser honesto, más tarde problematizado por el propio Marx pero sobre todo por Engels y Lenin, lo que no tiene sentido en una fase histórica como la actual (pero lo mismo, en retrospectiva, también era cierto en la época de Marx) en la que el fortalecimiento de la soberanía nacional y la reconquista de la misma para aquellos que lo han perdido por completo, como los países de la eurozona, es la condición sine qua non para ejercer la democracia y resistir la extensión geográfica ilimitada de la dominación capitalista (que obviamente no está en contradicción con un verdadero internacionalismo entendido como solidaridad y colaboración entre estados soberanos). En resumen, es necesario archivar con precisión aquellos elementos que, como era de esperar, le que queda a la izquierda occidental moribunda, que, como escribe Formenti, permite que el cadáver del socialismo se pudra mientras venera sus reliquias inútiles.

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